A Trieste il progetto di un’Associazione consiste nell’offrire un’esperienza abitativa quasi del tutto autonoma a un gruppo di persone con sindrome di Down o altra disabilità intellettiva lieve.
L’Associazione si chiama Oltre quella sedia ed è stata fondata da Marco Tortul, un operatore sociale che ora lavora a tempo pieno per essa. La particolarità di questo progetto, che si chiama La vita che vorrei, consiste nel tentativo di creare un ambiente il più possibile autonomo e allo stesso tempo il più possibile partecipativo. Nel senso che, da una parte, le donne attualmente coinvolte vivono e dormono da sole nell’appartamento, mentre il ruolo dell’operatore è quello di stimolarle, e solo saltuariamente; dall’altra parte, la definizione della forma e dei contenuti dell’esperienza viene discussa insieme dagli operatori dell’Associazione, dalle ragazze e dai loro genitori. Queste caratteristiche rendono l’esperimento sui generis, visto che di solito invece gli operatori vivono, parzialmente o completamente, insieme alle persone con disabilità intellettiva e che, inoltre, i genitori non vengono direttamente e costantemente coinvolti nella programmazione.
Abbiamo intervistato il fondatore ed ex presidente di Oltre quella sedia, Marco Tortul.
Innanzitutto, puoi spiegarci da dove deriva il nome “Oltre quella sedia”?
«Il simbolo più comune per rappresentare la disabilità è la sedia a rotelle. L’associazione è nata otto anni fa con la volontà di andare oltre gli stereotipi, fornendo stimoli e proposte per un cambiamento culturale».
Le vostre attività hanno a che fare con la gestione abitativa autonoma?
«A dire il vero nasciamo come gruppo teatrale. Otto anni fa facevo l’operatore sociale e avevo iniziato un mio percorso personale di teatro sperimentale, che a un certo punto ho deciso di condividere con le persone di cui mi stavo prendendo cura».
Come siete passati dal teatro alla gestione di un appartamento?
«Il teatro non l’abbiamo abbandonato, le nostre attività come compagnia teatrale proseguono tuttora. Accanto a queste, abbiamo iniziato un progetto di abitazione condivisa e il tutto è nato proprio dal teatro».
In che modo?
«Ogni anno a settembre, con la compagnia teatrale, organizziamo un ritiro di una settimana in montagna, durante il quale mettiamo le basi per lo spettacolo su cui poi lavoreramo nei mesi successivi. Affittiamo una grande casa e ci abitiamo insieme. Cuciniamo, facciamo le pulizie, dormiamo.
In questa circostanza, quattro anni fa, ed era il primo ritiro della nostra compagnia, Maria Benedetta Poillucci, in arte Olly, donna quarantaquattrenne con la sindrome di Down, per la prima volta ha imparato a prendersi cura di una casa, a cucinare e a compiere altre azioni quotidiane di cui di solito a casa si occupa la madre. Una volta rientrata a casa, Olly ha continuato a desiderare di compiere queste azioni. Ha espresso la volontà di farsi il letto e aiutare la madre in cucina. La madre è rimasta sorpresa e contentissima di questi nuovi desideri e di questa nuova intraprendenza. Non se lo sarebbe mai aspettato. Insieme agli assistenti sociali è nata dunque l’idea di affittare un appartamento, dove Olly potesse continuare il percorso di indipendenza che aveva cominciato in montagna. E così è stato. Per sei mesi ha abitato insieme a un’altra ragazza, anche lei con sindrome di Down, di una decina di anni più giovane. Insieme convivevano per quattro giorni su sette, anche la notte. Poi tornavano nell’altra loro casa, ognuna cioè dai rispettivi genitori. Entrambe accendevano il gas da sole, cucinavano, aprivano la porta e la chiudevano a chiave, poiché lasciavamo loro anche le chiavi».
Come avete proceduto?
«Con progressività. Durante il primo mese, noi operatori abbiamo abitato con loro. Poi abbiamo cominciato a lasciarle sempre più sole. Facevamo delle prove, per vedere se erano capaci di rispondere al citofono o se erano in grado di aprirci la porta dopo averci chiusi fuori ed essersi chiuse a chiave da dentro. Abbiamo insegnato loro man mano come gestire la casa da sole, finché, in accordo con le famiglie e soprattutto con loro stesse, abbiamo anche cominciato a lasciarle da sole durante la notte».
Poi cos’è successo?
«La ragazza che abitava con Olly è tornata a vivere a casa con i suoi genitori. Ora, da due anni, il progetto si sta sviluppando in un altro appartamento, in centro a Trieste, dove altre tre donne vivono insieme a Olly».
Quali sono le differenze del vostro progetto con quello di una cosiddetta “casa assistita”?
«L’appartamento è stato affittato direttamente dalle famiglie e non dall’Associazione, come di solito avviene in altri contesti. I genitori vengono coinvolti nelle riunioni di verifica insieme ai figli e agli operatori (anche gli operatori sono pagati direttamente dai genitori). I figli, poi, abitano il più possibile da soli nella casa, che sentono come loro, tanto che ne ricevono anche le chiavi. L’idea di fondo è dunque quella di riconoscere e stimolare le capacità personali evitando sempre più l’atteggiamento assistenziale».
Rientrate in un progetto di Vita Indipendente?
«No. Nel Comune di Trieste ci sono dei progetti di Vita Indipendente ma non per quanto riguarda l’abitazione, solo per l’assistenza personale».
Chi sono le attuali coinquiline di Olly?
«Lina e Cristina hanno entrambe 22 anni. Lina ha la sindrome di Williams [condizione genetica consistente in un disordine neurocomportamentale congenito, N.d.R.], mentre Cristina ha delle limitazioni mentali che non sono state classificate, così come anche Arianna, la quarta abitante della casa, ventinovenne. Ognuna di loro fa il suo percorso e incrocia quello delle altre».
Cioè?
«I percorsi sono personalizzati e stabiliti man mano in accordo con le famiglie. Così, Olly e Lina abitano insieme da martedì a sabato, Cristina, invece, rimane due giorni consecutivi alla settimana, anche la notte però, perché i suoi genitori non sono ancora pronti a staccarsi da lei per un tempo più lungo. Arianna, infine, è arrivata solo di recente, appena da pochi mesi, e non ha ancora provato l’esperienza notturna perché non se la sente di dormire senza sua madre. Viene qui di giorno e poi la sera torna dai genitori. Però tutte e quattro sono in grado di gestirsi da sole, anche di prendere l’autobus e fare la spesa».
Olly, che insieme alle altre sta assistendo all’intervista, prende la parola.
«Sono contenta di avere queste belle compagne, Cristina e Lina, e spero che stasera staremo un po’ da sole e faremo il pigiama party. Domani andiamo da Arianna, perché c’è scritto nel bigliettino».
Che bigliettino?
Ci risponde Marco: «Abbiamo l’abitudine di lasciarci dei messaggi scritti. Lo facciamo noi educatori, che entriamo nella casa il meno possibile e alle volte ci limitiamo a lasciare dei messaggi scritti con suggerimenti, idee, commenti, indicazioni. Anche le ragazze si scrivono l’una con l’altra. In questo caso Arianna, che è già andata via per oggi, ha lasciato un messaggio alle altre tre – che non erano a casa quando lei l’ha lasciata – nel quale le invita a pranzo per domani a casa dei suoi genitori».
Continuiamo l’intervista con Marco Tortul.
Quanti sono gli educatori che collaborano al progetto La vita che vorrei?
«Al momento siamo in tre. Io lavoro a tempo pieno, poi c’è un operatore a dieci ore settimanali e un altro a ventiquattro. Inoltre, collaborano con noi dei volontari, il cui ruolo è soprattutto quello di promuovere questa esperienza all’esterno, farla conoscere affinché si moltiplichi. Ci sono anche dei tirocinanti che si coinvolgono nel loro progetto, facendolo rientrare all’interno del loro percorso di studi».
ATrieste esistono altri progetti simili al vostro?
«Non che mi risulti. Il Comune stesso fatica anche a classificarla, la nostra esperienza. La chiama “Comunità Assistita”, ma, come ho già cercato di spiegare, si tratta in realtà di una cosa diversa. Io non cucino la pastasciutta per le ragazze. Insegno loro come si fa, ma poi la devono fare da sole. E non finisce qui. In un libro di cucina cercano altre ricette, varianti della pastasciutta che ho insegnato a cucinare io. Poi fanno la lista della spesa e scendono al supermercato sotto casa per comprare gli ingredienti necessari. Abbiamo scelto – e lo abbiamo fatto tutti insieme, ragazze e genitori compresi – un appartamento in pieno centro città proprio per agevolarle nel raggiungimento dei servizi, come anche le poste o altri negozi».
Come funzionano le riunioni con i genitori?
«Ogni due settimane organizziamo delle riunioni aperte. Ci troviamo tutti all’interno dell’appartamento. Le famiglie possono esprimere liberamente i loro bisogni e i loro pensieri e, al contempo, i genitori hanno l’occasione di ascoltare quelli delle loro figlie espressi in prima persona proprio da loro. Chiunque può prendere la parola con lo stesso grado di autorità. Genitori, operatori, volontari, figlie. Ci ispiriamo al lavoro di Franco Basaglia.
Abbiamo conosciuto uno psicologo che ha collaborato con i collaboratori di Basaglia e lo invitiamo a partecipare ai nostri incontri. Anche per lui però valgono le stesse regole che valgono per tutti gli altri. Non gli viene chiesto di condurre la discussione in alcun modo, ma semplicemente di dire la sua al pari di tutti gli altri».
Capita spesso che i genitori trascorrano dei momenti a casa dei figli?
«Direi di no. Le figlie a volte invitano i genitori a cena e cucinano per loro. Ma in generale il loro desiderio è di stare sole e godersi il tempo insieme le une con le altre. Le ragazze, con questa esperienza, assaporano il significato della libertà. La loro vita è loro e loro soltanto. Nemmeno i genitori possono sostituirsi a loro nel percorrerla. Nessuno può scegliere al loro posto. Con la nostra modalità, la libertà è esaltata senza al contempo escludere nessuno, visto che anzi, attraverso soprattutto le riunioni di cui ho parlato, i genitori vengono attivamente coinvolti nel percorso di autonomia dei figli».
In qualche modo, dunque, vi prendete cura anche dei genitori, cambiate la loro visione della disabilità delle loro figlie.
«Sì, è vero. In realtà non facciamo niente se non mostrare loro, “in diretta”, le capacità delle figlie, capacità che magari a casa, in un contesto più protetto, non avevano trovato modo di esprimersi. E siamo andati anche oltre. Abbiamo proposto ai genitori uno stage di teatro sperimentale, solo per loro. Ne abbiamo già organizzati due, con successo. Insieme a due attori della compagnia teatrale, affittiamo una casa con venti posti letto e i cuochi sono alcune persone con disabilità specializzate in cucina. Non si tratta dei loro figli, ma è un’occasione in più per loro di rendersi conto di quante cose una persona con una disabilità intellettiva lieve è in grado di fare se gliene viene data l’occasione».
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