Essermi guardato allo specchio: questa la prima sensazione, dopo aver letto sulle pagine di Superando il lungo, bellissimo racconto/intervista di Claudia Marzocchi, mamma di Margherita. Uno specchio leggermente deformante solo nel finale, nel senso che – contro le tristi previsioni di molti e illustri clinici di vent’anni fa – la storia di Silvia è una storia aperta*. Per il resto una similitudine sbalorditiva: stessi errori clinici, stesse terribili decisioni da prendere, stessa necessità di superare – per assistere – quelli che sono normalmente ritenuti i limiti della resistenza umana, stessa dose di gioia e di dolore, di desiderio di fuga dalla realtà e di impossibilità di concepire un’esistenza diversa.
Ancor più incredibile, forse, è che questa storia di vita, apparentemente così estrema, converga e si identifichi in quella di molte nostre famiglie, le famiglie dei “gravissimi”, fatte di genitori caregiver, di “sibling” [i “sibling” sono i fratelli e sorelle di persone con disabilità, N.d.R.], di nonne che aiutano tantissimo e purtroppo, a volte, di altri parenti “che se ne fregano totalmente”.
E se queste vite così apparentemente uniche si moltiplicano come riflesse in uno specchio, diventando un piccolissimo esercito, ecco la necessità di cercare di spiegare davvero a tutti, almeno a tutti quelli che hanno la buona volontà di ascoltare, che le persone con disabilità gravissima e le loro famiglie – che in molti casi si identificano nel caregiver familiare unico – hanno pressanti esigenze vitali che non possono essere disattese.
Si tratta di necessità così impellenti da superare ogni prudenza umana: si litiga con parenti stretti, si hanno scontri con gli amici (che se sono amici veri capiscono, perdonano gli scatti d’ira… e ritornano), con chi giustamente vede anche le altre necessità del mondo della disabilità (lavoro, esigibilità dei diritti, partecipazione, rappresentanza ecc.), che per noi sono purtroppo una sorta di “lusso”, desiderabile ma irraggiungibile, e per questo lontanamente fascinoso.
Chi – molti anni addietro e non ricordo chi fosse – disse: «Se l’amore dei genitori bastasse a guarire, voi non sareste qui» (e quel «qui» era un centro di riabilitazione o un ospedale pediatrico), disse una cosa vera, ma ne scordò una parte. La cosa vera è che «non basta» a guarire, la parte non detta, invece, è che senza quell’amore non si sarebbe mai andati in quel posto – centro riabilitativo od ospedale che fosse – per guarire ciò che si poteva guarire e far fare al proprio figlio la miglior vita possibile, corta o lunga che fosse.
Se la mamma di Margherita ha paragonato la sua vita a una fionda con l’elastico sempre teso, la mia – la “nostra”, direi, ben sapendo di non esser solo – è simile alla lama di un rasoio. Ove si riesce a stare in equilibrio (soprattutto mentale, ma anche fisico), solo se si diviene funamboli. E ben sapendo che le lame possono tagliare e fare molti danni. Anche e soprattutto agli altri.
*Silvia è la figlia di Giorgio Genta. Se ne legga in Abile, disabile, disabile grave: storia di Silvia e della sua famiglia, testo scaricabile in internet e, in versione cartacea, capitolo del libro di Autori Vari Mio figlio ha le ali. Storie di ordinaria disabilità (Erickson, 2007).