Chiara, assistente sociale e presidente dell’Associazione “Un passo avanti“; Claudio, impiegato, tre figlie, una grande passione per l’informatica; Fabiana, mamma per vocazione e oggi scrittrice; Giorgio, che di mestiere “fa il padre di Silvia” e che scrive di notte; Marina, mamma, moglie e presidente dell’Associazione “Claudia Bottigelli“; Mauro, marmista, scrittore improvvisato e presidente dell’Associazione Bambini Cerebrolesi Lombardia; Patrizia, che parla tante lingue e soprattutto quella “del cuore”; Rossella, ex assistente sociale nel settore penitenziario, che ama i cani, i fiori, la montagna la musica. Che cosa li accomuna? Forse un semplice verbo ripetuto tre volte che fa tornare alla mente le parole pronunciate qualche anno fa, in tutt’altro scenario, da un procuratore di Milano: «Resistere, resistere, resistere»…
“Incidentalmente” sono anche tutti genitori di una persona con grave disabilità, ciò che li ha portati a condividere l’esperienza di un bel libro, uscito in settembre e già presentato in numerose sedi.
Alcuni di loro (Chiara Bonanno Madussi, Marina Cometto e Giorgio Genta) sono “vecchie conoscenze” per i lettori di Superando.it, che hanno avuto modo di conoscerne a più riprese le istanze, la rabbia, le frustrazioni, ma anche la gioia di raccontare la propria esperienza.
In poche parole Mio figlio ha le ali. Storie di quotidiana disabilità (Erickson Edizioni) è un libro che meriterebbe un’attenzione ben maggiore rispetto a quella riservata dai rivenditori (e dai lettori) a tanti romanzi, saggi di costume (politico e non) o pseudoracconti di vita.
Un grande della letteratura italiana – pure lui per troppo tempo confinato nella “nicchia del genere” – come Giorgio Scerbanenco, scrisse una volta: «La vita è come un pozzo delle meraviglie, ci puoi trovare di tutto, il fagotto di stracci, il gioiello o la coltellata». E Mio figlio ha le ali è proprio così, un “pozzo delle meraviglie”. Proviamo a visitarlo assieme.
C’è l’istinto di sopravvivenza, quando Chiara scrive: «È stato il bisogno di tenere al caldo i più deboli che ha portato al fuoco; è stato il bisogno di trasportare chi non camminava che ha fatto nascere la ruota; è stato il bisogno di curare le persone che amiamo che ha spinto l’uomo a ideare delle cure. Simone e le sue gravi disabilità rappresentano il bisogno, il bisogno di trovare una comunicazione al di là delle parole, di trovare un rapporto diverso e individualizzato, di lambiccarsi per creare le condizioni di una vita dignitosa per tutti, attraverso i suoi bisogni».
C’è tutta la speranza, nelle parole di Mauro: «Non so quale mano fatata abbia confuso i pezzi del puzzle che compongono la vita di Emanuele, come non conosco chi ha probabilmente trafugato qualche tassello di quell’enorme mosaico che è la vita normodotata. Sta di fatto che ora ci troviamo qualche centinaio di pezzi sparsi su un tavolo e alcuni di questi tasselli non hanno ben definito il contenuto. Punti di domanda? Probabile, ma non sempre è detto che dietro a un punto di domanda ci sia un imprevisto. Molto più facilmente esiste la probabilità di trovare un’opportunità, certo diversa, ma non per questo meno funzionale o incisiva».
Ma c’è anche tanta rabbia, di fronte ad una società che spesso mostra la sua faccia “sbagliata” (ancora Mauro: «Un ausilio per disabili mancini – con la motivazione statistica che il numero di questi è di gran lunga inferiore a quello dei destrimani – costa uno zero in più – zero aggiunto a destra del valore dello stesso oggetto per destrimani – cioè dieci volte tanto. A parte la sottile vena ironica – ma proprio sottile – non riesco a capacitarmi dei costi degli ausili. Che sia per la parità? Visto che un ragazzo non deambulante non potrà mai utilizzare un motorino, lo rendiamo integrato parificando i costi della sua carrozzina a quelli di una motocicletta? Raggiunta la maggiore età potrà permettersi una carrozza elettrificata al costo di un’utilitaria») e la fatica o le difficoltà, anche economiche, testimoniata da tutti (Chiara riflette: «La vita con un bambino come il mio non è mai stata una passeggiata, ma un’arrancante salita su un terreno sdrucciolevole», mentre Mauro annota: «Quando le spese richiedono il deposito di Paperone, un po’ d’ossigeno non farebbe male, anzi! Servirebbe proprio un poco di tranquillità per scegliere liberamente le metodiche riabilitative, per poter acquistare un ausilio senza dover attendere tempi biblici, per non dover elemosinare i nostri diritti a un prescrittore specializzato in fisiatria, per avere un aiuto nelle faccende domestiche, e infine per potersi permettere una vacanza che sia una vacanza»).
E allora “avanti!”, “resistere, resistere, resistere”, ma con quali armi? Per Giorgio è una vera e propria “battaglia campale”, per la quale vale la pena scomodare termini bellici: «Esistono molti tipi di combattimento: quello dell’esercito numeroso e ben organizzato, potentemente armato e sapientemente comandato, e quello di un minuscolo gruppo di guerriglieri, dotati solo di coraggio e fantasia. Tra questi due estremi spazia la lotta alla disabilità. Il paragone è trasparente: l’esercito numeroso sono (o dovrebbero essere) la Sanità e la Riabilitazione dello Stato, delle grandi strutture pubbliche o private; i guerriglieri sono i genitori dei disabili e i disabili stessi, che lottano autonomamente, spesso disordinatamente e tavolta, malgrado tutto, ottengono validi risultati».
E i “guerriglieri”, volenti o nolenti, devono ricorrere all’arte di arrangiarsi, all’insegna della quale Chiara arriva a “codificare” tre trucchi fondamentali: «Non guardare mai indietro. Procedere in cordata. Fermarsi ogni tanto».
Scalatori, dunque, non solo guerriglieri, ma alpinisti che attaccano le vette più elevate, cercando di convivere – e di sopravvivere – ad un habitat estremo.
Ma tutt’altro che eroi, anzi, cittadini come tutti, che oscillano tra fatica, debolezze, voglia di lottare e di andare avanti. E che usano anche quel pizzico di ironia («Anche i genitori – scrive Rossella – hanno bisogno di staccare. Non date retta agli sguardi e alle parole delle mie colleghe assistenti sociali. Riposarsi, occuparsi d’altro, andare al mare o in montagna o starsene anche semplicemente a casa senza il costante pensiero del figliolo, è pura, semplice e raccomandabile igiene mentale, e la possibilità di farlo, quando se ne ha bisogno, dovrebbe essere inserita tra le terapie fornite dal servizio sanitario nazionale») e di disincanto(«Perché non credere – ricorda Fabiana – che, se un bambino disabile piange, forse ha combinato una marachella? Diletta ne combina tantissime…»), che forse è il vero e proprio “valore aggiunto” del loro racconto.
Si sarà capito, dunque, che a parere di chi scrive Mio figlio ha le ali non è il “solito” racconto autobiografico di alcuni genitori, ma ben di più, un affresco di vita vera, che si legge di un fiato e che più di tanti trattati può aiutare a conoscere e a capire ciò che a volte molti fingono di non vedere. E che sa anche commuovere, leggendo ad esempio quale sia la “stella polare” nella vita di Marina: «No, tu facevi parte di noi e dovevi stare con noi! Ti avevano rubato un futuro felice, non avrei permesso che ti portassero via anche il nostro amore».
Recentemente Giorgio Genta, invitando a pensare a questo libro come ad un regalo «fatto “con il cuore”, soprattutto per chi ha a cuore i problemi degli altri, i problemi della società, i problemi che sono di tutti», ha anche aggiunto: «L’abbiamo scritto noi e per noi, cioè per quelli come noi, per tutti i genitori con disabilità, ma va benissimo per tutti; è un libro “resiliente”: insegna (fosse possibile farlo!) “che fare?” in casi del genere, raccontando semplicemente quello che abbiamo fatto, amando i nostri figli».
Non possiamo che condividere e chiudere riportando quanto gli otto autori di Mio figlio ha le ali scrivono collettivamente all’ultimo punto di un loro decalogo ideale, rivolgendosi direttamente ai lettori: «Qualcuno, sicuramente molto più capace di noi con la penna, scrisse: “Non si vede bene che col cuore, l’essenziale è invisibile agli occhi [Antoine de Saint-Exupéry nel Piccolo principe, N.d.R.]” e i nostri bambini ne sono la testimonianza. Noi l’abbiamo capito».
Mio figlio ha le ali. Storie di quotidiana disabilità
Spini di Gardolo (Trento), Erickson, 2007
Collana Capire con il cuore, 222 pagine, 15 euro.
Di imminente uscita è una ristampa del libro, con un CD Audio in terza di copertina in formato MP3, nel quale tre attori teatrali leggono le varie storie.
Un’iniziativa certamente lodevole, quest’ultima, che consentirà di aprire la fruizione dell’opera anche alle persone con problemi di vista.