Era atteso ed è arrivato… sottotono. Il tema forte dell’assistenza sessuale ai disabili, presentato nel film The Sessions (ovvero “Gli incontri”, nei cinema italiani a partire dal 21 febbraio), meritava cautela, certo, ma forse c’è n’è stata fin troppa. A Milano, ad esempio, è stato proiettato solo in un paio di sale, dall’esigua capienza e, vedendo le tante poltrone vuote del sabato pomeriggio, non penso abbia certo sbancato il botteghino.
Vale la pena vederlo? Se si hanno ancora negli occhi alcuni passaggi di Quasi amici, uno dei “film-boom” del 2012, opera diretta e immediata, che sbatte in faccia allo spettatore la realtà della disabilità, forse, sulle prime, si potrebbe restare delusi. Si potrebbe uscire dalla sala con la sensazione di avere solo “accarezzato” la profondità delle emozioni dell’intera vicenda. Poi, pian piano, come si fa con la cipolla in cucina, rimuovendo lentamente gli strati si arriva al cuore. Quello vero, sede dei sentimenti.
The Sessions, per me, è un inno all’amore, e non solo quello fisico, è l’esaltazione della caparbia voglia di vivere del poeta e giornalista americano Mark O’Brien (deceduto nel 1999 all’età di 49 anni). Un film biografico che prende il via da un articolo che lo stesso O’Brien scrisse nel 1990 in «The Sun», dal titolo Alla ricerca del surrogato sessuale (in originale On seeing a sex surrogate).
Mark, che all’età di 6 anni contrae la poliomielite, trascorre la sua vita all’interno di un polmone d’acciaio che gli consente di respirare. Ha solo una manciata di ore al giorno di libertà da quel cilindro gigante che aumentando o diminuendo la pressione interna, attraverso una pompa, consente la respirazione. A 38 anni Mark decide di perdere la verginità e lo fa pagando un’assistente sessuale, figura professionale attiva negli Stati Uniti [e anche in alcuni Paesi europei, N.d.R.]. Tutta la trama del film si incentra sugli incontri che Mark ha con l’assistente sessuale, alla scoperta delle pulsioni del proprio corpo, che l’handicap non gli aveva mai permesso di soddisfare.
Ma i tre attori principali, John Hawkes che interpreta O’Brien, Helen Hunt nei panni di Cheryl Cohen-Green, l’assistente sessuale, e William H. Macy in quelli di padre Brendan, ci portano a svelare lati profondi dell’animo umano. Ci aiutano a scavare dentro quei personaggi, e anche dentro di noi. Forse la chiave di volta delle riflessioni è la figura di Cheryl. Gli spettatori, attraverso il percorso di Mark, lentamente sciolgono i pregiudizi legati alla professione e scoprono la donna, fragile, delicata, complessa e perennemente coinvolta emotivamente.
Al primo appuntamento, la frase di esordio di Mark è «i soldi sono sul tavolo», quasi pensasse a Cheryl come a una prostituta, al sesso come a un atto meccanico svuotato di significati e sentimenti. Cheryl inizialmente detta il ritmo delle “sessioni”, con molta professionalità e poca dolcezza. Poi lentamente qualcosa cambia, il limite fisico si supera, si entra nella sfera emotiva, ed entrambi i personaggi – anche attraverso il contatto – si scoprono, si danno piacere e si fanno sempre più coinvolgere l’uno dall’altro. Gli spettatori sullo schermo vedono l’uomo e la donna alle prese con i loro drammi interiori. Con i loro cuori, fisici e menti, che li portano a vivere un turbinio di emozioni, di domande dove forse non esiste solo un giusto o sbagliato, ma mille possibili risposte.
«Questo è il corpo che Dio ti ha dato. Questo è il tuo corpo», scandisce lentamente una voce in sottofondo, mentre Cheryl mostra a Mark allo specchio il suo fisico. Ecco il fulcro. Questo è il corpo che devi accettare. Quasi che il diventare Uomo per Mark non passasse dal perdere la verginità, ma dall’accettazione del suo corpo e dal cancellare il senso di colpa. Dall’eliminare dalla testa il pensiero di essere stato “punito da Dio” per qualcosa.
Ecco un messaggio che mi ha colpito profondamente perché si avvicina al mio vissuto. Per lungo tempo non ho accettato la disabilità e ho trasformato questa difficoltà in un odio per quei due terzi immobili del mio fisico, per quella parte sorda agli stimoli, per quell’involucro ingombrante e inutile. Una non accettazione accompagnata da uno stupido senso di colpa, quasi fossi colpevole di quanto mi era successo.
Il terzo tema forte è quello della fede, ben rappresentata da padre Brendan. Una religione, inizialmente, vista come un dogma che detta regole rigide di comportamento, di tabù, vissuta con paura da Mark che, come già detto, pensa di essersi meritato quella condizione. Una religione che però assume un volto umano, razionale, tenero e capace di guardare oltre alle piccolezze degli uomini.
Padre Brendan, tra mille tormenti morali, accetta di buon grado di stare accanto alla sua “pecorella” in un terreno spinoso come il sesso. Prega per lui e lo assolve dal suo peccato di fornicazione. La fede guida entrambi i personaggi: Mark nella sua volontà incrollabile di vivere ogni istante, padre Brendan nella consapevolezza che Dio è capace di perdonare le azioni se fatte con il cuore.
E il sesso? Quello che doveva essere il grande personaggio virtuale? Rimane in superficie, surclassato dall’amore. Spesso nella vita si cerca sesso, ma si chiede amore. Un sentimento negato a molte persone con disabilità a causa dell’aspetto fisico, dell’incapacità di avvicinarsi, della paura, dell’ignoranza…