Il disturbo post traumatico da stress (PTSD) è una sindrome tipica di coloro che sono stati sottoposti a intensissimi choc emotivi, quali quelli derivanti da bombardamenti intensi o da combattimenti prolungati in tempi di guerra.
Se consideriamo la disabilità gravissima di un familiare come un “perenne combattimento” contro le avversità esistenziali, il suo caregiver è esposto a possibile PTSD, anche se obiettivamente non è alta la percentuale degli assistenti di cura affetti da tale patologia. E tuttavia, l’insorgenza di alcuni sintomi caratteristici delle sindromi da stress è condizione ricorrente in chi presta cure di particolare impegno e intensità a familiari a forte rischio esistenziale, vale a dire quando la qualità e l’intensità dell’azione di cura viene percepita come l’unico possibile argine a una diagnosi infausta.
Talvolta, inoltre, il progredire della patologia viene vissuto dal caregiver come conseguenza di una presunta inadeguatezza del proprio operato e ciò ingenera sensi di colpa in realtà del tutto immotivati. Più comunemente, per altro, il caregiver è ben conscio dell’insostituibilità del suo ruolo e trae una forte motivazione esistenziale nel proprio prestar cura.
Non è quindi una sorpresa constatare che più che la fatica fisica e il progredire della propria età anagrafica, il familiare della persona con disabilità gravissima tema tutto ciò che ostacola il suo libero mandato: la burocrazia esasperante, la frequente incapacità dei servizi a rapportarsi con lui in maniera positiva e costruttiva, il rischio che il protagonismo, o all’opposto, l’indifferenza dei politici distorcano o non traducano in realtà i provvedimenti legislativi che potrebbero sostenere efficacemente la sua amorevole azione di cura.