Gli Oscar 2013 e il disagio psicofisico e mentale

di Stefania Pizzi
«A volte - scrive Stefania Pizzi, riferendosi ai recenti Oscar cinematografici - un po’ più di coraggio servirebbe a premiare film coraggiosi e magari un po’ scomodi». Un rapido excursus dedicato alle opere “Amour”, “Il lato positivo” e “Re della terra selvaggia”, tutte incentrate - in modo più o meno diretto - sul disagio psicofisico, mentale e anche sociale
Jean-Louis Trintignant ed Emmanuelle Riva
Jean-Louis Trintignant ed Emmanuelle Riva in una scena di “Amour”, Oscar 2013 come Miglior film straniero

A: Non c’è alcuna ragione di continuare a vivere, io so che non posso che peggiorare. Perché infliggerci questa tortura? A te e a me? G: Ma tu non mi infliggi niente. A: Non sei obbligato a mentire George. G: Immagina di essere tu al mio posto. Non hai mai pensato che sarebbe potuto succedere a me? A: Sì certo, ma l’immaginazione e la realtà hanno molto poco in comune. G: Ma stai migliorando ogni giorno. A: Io non voglio più. Tu fai sforzi commoventi per facilitarmi tutto questo, ma io non voglio più, per me non per te. G: No io non ti credo, io ti conosco. Tu pensi di essere un peso per me, ma se tu fossi al posto mio che cosa faresti? A: Non so niente, non voglio mettermi al posto tuo. Non mi importa. Sono stanca ora, mi voglio sdraiare.

Questo dialogo fra i due protagonisti di Amour (regia di Michael Haneke, Austria/Francia/Germania, 2012), Anne e Georges, segna lo spartiacque della vicenda filmica che è alle prime battute. La donna dell’anziana coppia di insegnanti di musica, dopo avere subìto il primo colpo ischemico che gradualmente ne modifica il corpo e la mente in modo letale, esprime la propria ferrea volontà. Il marito all’inizio resta incredulo e attonito: il loro, oltre ad essere un grande amore, è soprattutto un rapporto di profondo scambio culturale, stima, affetto. Dopo questa scena, il piano semantico della storia si inclina inesorabilmente verso un altro registro: quello del dolore, dell’inizio della fine, e di una scelta (frutto della sua reazione alla scelta decisa di Anne) di Georges, che pian piano si direzionerà nell’aiutare a rendere dignitoso l’ultimo tempo di vita della coniuge, se ciò è possibile, ormai divorato dalla malattia.
Questo è Amour, candidato a cinque statuette prestigiose, ai recenti Premi Oscar (Miglior film, Migliore attrice protagonista, Miglior regia, Miglior sceneggiatura originale e Miglior film straniero) e uscito vincitore “solo” della statuetta come Miglior film straniero.
L’interpretazione dei due protagonisti (Jean-Louis Trintignant ed Emmanuelle Riva) è superba: lo sguardo, il registro espressivo, la naturalezza e l’interpretazione della vecchiaia, fisica e morale, restano lì, nella mente di chi guarda, indelebilmente impressi. E non si può non inchinarsi dinanzi alla bravura stupefacente e intensa dell’ottantaseienne Emmanuelle Riva, che avrebbe meritato la statuetta come Miglior attrice protagonista.

Nulla si vuol togliere, per altro, all’intensa e divertente interpretazione – sopra le righe per ironia, durezza e incisività – di Jennifer Lawrence, (sovra) premiata come Migliore interprete femminile ne Il lato positivo (Silver Linings Playbook, regia di David O. Russell, USA, 2012, in uscita in Italia il prossimo 7 marzo).
L’outsider che avrebbe sorpreso il mondo intero in caso di vittoria, non l’ha spuntata (la bravissima Quvenzhané Wallis di Re della terra selvaggia, all’epoca delle riprese aveva sei anni, e il film è l’opera prima del trentenne statunitense Benh Zeitlin!), così come la data per favorita attrice francese. Ecco, però, e questo ci piace sottolinearlo con massimo stupore e interesse, che le tematiche affrontate nei film appena citati sono affatto banali, ma dirette con intelligenza e originalità.
La storia della giovane sbandata (Tiffany-Jennifer Lawrence), che si innamora dell’uomo sposato internato per otto mesi, perché affetto da sindrome bipolare che gli provoca attacchi forti di aggressività, e che lei tira fuori con una sorta di danzaterapia, è fluida, attraente e strappa-sorrisi a più non posso. Eppure, si parla di disagio psichico e di una famiglia sconvolta da tutto questo, e lo si fa con un linguaggio semplice, attraverso un registro comprensibile, con un sottolivello denso di amarezza e sofferenza degni di nota (peccato per il finale melenso e scontato…).
Nell’altro film statunitense – assolutamente e inspiegabilmente ignorato da tutte le nomination ricevute in partenza – si è dinanzi a un piccolo gioiello per quanto riguarda la vena narrativa, magica, il modo di raccontarla, il tratteggio dei personaggi (il padre della piccola Hushpuppy insieme con la sgangherata banda di disperati che vagano nella “Grande vasca”), simbolicamente eloquenti e la sceneggiatura (qui, ad esempio, poteva starci la statuetta, a mio modesto parere), mai convenzionale.
Il disagio sociale mostrato è forte, e la piccola protagonista – regina della fiaba e degli animali che le stanno intorno – lo subisce e lo osserva fino alla fine, con un coraggio commovente, adulto, ma pur sempre filtrato attraverso i propri occhi di bambina.

Spiace affermare – anzi confermare anche per questo evento – che a volte un po’ più di coraggio servirebbe a premiare film coraggiosi e magari un po’ scomodi…

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