È stato edito in questi giorni dalla casa editrice Erickson il testo Narrazione e disabilità intellettiva. Valorizzare le esperienze individuali nei percorsi educativi e di cura. A firmarlo sono Ciro Ruggerini – neuropsichiatra infantile, psichiatra e psicoterapeuta, oltre che presidente della SIRM (Società Italiana per lo Studio del Ritardo Mentale) e direttore sanitario della Cooperativa di Servizi L’Arcobaleno di Reggio Emilia -, Sumire Manzotti – neuropsichiatra infantile, direttore generale del Minamiyachimata Mental Hospital in Giappone e membro del consiglio direttivo della SIRM -, Giampiero Griffo – membro dell’Esecutivo Mondiale di DPI (Disabled Peoples’ International) -, e Fabio Veglia, psicologo, psicoterapeuta, professore straordinario di Psicopatologia Generale all’Università di Torino.
Il libro mette al centro la narrazione dei vissuti delle persone con disabilità intellettiva e dei loro familiari, intesa come insieme di informazioni imprescindibili per costruire servizi e mettere a punto una diagnosi. Abbiamo intervistato Ciro Ruggerini e Sumire Manzotti per entrare insieme a loro nei contenuti del loro saggio.
In questo libro la narrazione è considerata elemento fondante della diagnosi. Potete spiegarci meglio cosa si intende?
«È necessario chiarire i significati del termine diagnosi. In medicina e in àmbito psicologico vi sono più accezioni che corrispondono a finalità diverse. C’è una diagnosi intesa come identificazione della condizione in cui la finalità è amministrativa (di certificazione): riconoscere che una persona non è del tutto autonoma nel realizzarsi e, per questo, altri membri della sua comunità sono chiamati a fornire un sostegno. C’è una diagnosi–assessment, intesa come descrizione delle caratteristiche individuali: gli uomini sono diversi l’uno dall’altro e ciò vale per ogni condizione esistenziale. La conoscenza delle caratteristiche individuali è utile a costruire una programmazione dei servizi necessari. E c’è poi una diagnosi completa (olistica), che serve ad orientare i sostegni al progetto di vita della persona. La cultura psichiatrica più avanzata riconosce che di questo tipo di diagnosi fa parte una sezione idiografica [idiografica è una ricerca che ha per oggetto di studio un caso particolare e specifico e non una classe di fenomeni dalla cui analisi trarre leggi e regole generali, N.d.R.]. La narrazione è lo strumento di questa parte della diagnosi per una ragione semplice: ciò che chiamiamo “progetto di vita” non è che un progetto organizzativo che supporta ciò che è importante per l’individuo. E ciò che è importante per l’individuo sono i significati che egli attribuisce all’esperienza o, con altro linguaggio, i suoi valori».
Perché le persone con disabilità intellettiva e i loro genitori devono potersi raccontare?
«Nella struttura del nostro libro abbiamo ritenuto necessario ricostruire il percorso storico attraverso il quale la medicina ha faticosamente scoperto la necessità – ai fini di un’assistenza efficace – dell’ascolto dei pazienti. L’origine della medicina narrativa si fa risalire al 1999, con la pubblicazione di cinque articoli su una rivista medica prestigiosa, il “British Medical Journal”. Non solo le persone con disabilità intellettiva, quindi, ma tutte le persone a contatto con i sistemi di assistenza e di cura devono essere ascoltate, con l’obiettivo minimo di contribuire a individuare i punti critici suscettibili di miglioramento.
Detto questo, possiamo specificare che le persone con disabilità intellettiva e i loro genitori devono potersi raccontare almeno per tre ragioni. Innanzitutto, il racconto contribuisce al miglioramento del sistema assistenziale: le narrazioni che i genitori fanno delle loro esperienze hanno un grande valore perché permettono di toccare con mano ciò che funziona e ciò che non funziona. L’ascolto di queste esperienze, quindi, non è tanto un’opzione pleonastica oppure la realizzazione di un diritto civile, ma piuttosto uno strumento indispensabile per rendere efficace il sistema di assistenza. Nel nostro testo sono indicati due concetti che articolano ulteriormente questa affermazione. Il primo è che dell’esperienza di genitori fanno parte anche esperienze di vera e propria creatività. Il secondo è che le narrazioni dei genitori e degli individui forniscono una guida sicura per l’allocazione di risorse economiche necessariamente limitate.
Inoltre, la narrazione è importante perché permette la costruzione della trama di aiuti: se l’obiettivo della comunità è quello di fornire un sistema di sostegni funzionali a ciò che è significativo per l’individuo stesso, ogni percorso è necessariamente centrato sulla persona. Ciò si realizza soltanto se i percorsi sono costruiti insieme e se il percorso si configura come una trama possibile anziché come un percorso obbligato. La narrazione dei valori personali è l’espressione necessaria dell’agenda della persona.
C’è infine un terzo concetto che abbiamo introdotto nel libro, incentrato sul rapporto tra narrazione e identità: l’identità di ogni persona si costruisce in un gioco di relazione in cui la posizione fondamentale è il riconoscimento dell’altro come agente unico. Solo permettendo a una persona con disabilità intellettiva di muoversi in tipi di relazioni con queste caratteristiche, si può favorire lo sviluppo di un’identità positiva, cioè originale, costruita sulla base della storia personale dell’insieme dei riconoscimenti concreti e non imposta in modo oppressivo da uno stigma comunitario».
Cosa cambia, quindi, nei percorsi educativi e di cura?
«Pensiamo sia utile la precisazione dei termini “cura” e “percorso educativo”. Se “cura” significa “terapia”, questo termine è del tutto inadatto a descrivere in modo completo ciò di cui le persone con disabilità intellettiva hanno bisogno. Come Cittadini, queste persone possono ammalarsi di malattie internistiche, neurologiche e psichiatriche. E come tutti i Cittadini, per queste malattie devono ricevere terapie appropriate, nella conduzione delle quali il loro punto di vista è esattamente – come per tutti – essenziale.
E tuttavia, quello della disabilità intellettiva è un modo di essere al mondo, una condizione esistenziale, un essere Cittadino tra i Cittadini e dunque il termine “cura” è comprensibile solo per un’utilizzazione mirata ad un’area particolare di bisogni assistenziali. Le persone con disabilità intellettiva non sono malati cronici.
Il termine “percorso educativo” merita anche esso alcune precisazioni. Tutti i Cittadini possono essere al centro di percorsi educativi nell’arco intero della loro esistenza; lo stesso vale per le persone con disabilità intellettiva. Anche queste persone possono apprendere adattamenti nuovi in ogni età. Nel nostro lavoro abbiamo sottolineato come si debba oggi considerare in un modo radicalmente diverso il concetto di educazione. La novità sta nel sottolineare che l’educazione ha il suo obiettivo nell’espansione massima delle proprie potenzialità, guidata da scelte consapevoli tra opportunità concrete. In questo percorso il soggetto (qualunque soggetto, senza alcuna distinzione imposta dai livelli di efficienza intellettiva) è agente, cioè timoniere del proprio divenire. A questo linguaggio psicologico corrisponde il linguaggio anche sociologico che sottolinea la possibilità per il soggetto di essere co-costruttore del proprio mondo, realizzando una funzione di empowerment [rafforzamento e crescita dell’autoconsapevolezza, N.d.R.]. Capability, Agency ed Empowerment sono le parole chiave del campo dello sviluppo individuale e la narrazione del sé è, di nuovo, lo strumento essenziale con cui si realizzano questi modo di stare nell’organizzazione sociale».
Quale tipo di professionalità andrebbe conseguita dagli operatori dei servizi?
«Va sottolineato, innanzitutto, come gli operatori dei servizi abbiano necessariamente professionalità diverse. Almeno due sono le costanti di ognuna delle diverse professionalità: l’acquisizione di un bagaglio culturale-tecnico specifico; l’abitudine a un pensiero critico – che corrisponde alla consapevolezza costante delle ragioni di fondo della propria azione (episteme). Una terza costante si potrebbe chiamare competenza narrativa: significa cioè saper riconoscere nell’altro un agente attivo della propria esperienza, un partner nella costruzione della propria trama di aiuti».
Che rapporto ha questo nuovo approccio con la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità?
«L’ascolto delle narrazioni delle famiglie e delle persone stesse con disabilità intellettiva esprime la piena realizzazione dei princìpi espressi nell’articolo 3 della Convenzione in cui compaiono i termini “autonomia individuale”, “indipendenza”, “non-discriminazione”, “rispetto per la differenza” eccetera. Si può anche dire che la scoperta della narrazione nella medicina abbia evidenziato come le persone a contatto con i servizi medici siano state, per ragioni storiche, private, fino a poco tempo fa, di una parte della loro esperienza (in inglese utilizzeremmo il termine illness), interamente “scotomizzata” per concentrare l’attenzione su ciò che in inglese si chiama disease. La narrazione di sé e della propria esperienza restituisce a tutte le persone che entrano in contatto con il sistema di assistenza – comprese le persone con disabilità – da una parte la possibilità di essere accolte nella completezza della loro umanità e dall’altra la possibilità di esercitare un ruolo di cittadinanza attiva».
Cosa potete consigliare, in conclusione, ai genitori e alle associazioni che tutelano i diritti delle persone con disabilità intellettiva?
«Siamo stati spesso affascinati dalla ricchezza delle esperienze umane che, attraverso le loro storie, tanti genitori ci hanno trasmesso. Possiamo immaginare che le storie che abbiamo descritto siano una parte infinitesimale di una realtà complessa e ricca, una vera “miniera di umanità” a cui tutti i Cittadini dovrebbero poter attingere. Ci sentiamo di suggerire ai genitori di considerare i loro figli autentici “professori universitari” nelle Humanities. La narrazione delle loro esperienze può, dunque, arricchire il tessuto sociale, farlo lievitare, riempirlo di nuove speranze, orientarlo a un obiettivo in cui ognuno è, inevitabilmente, parte di un tutto, naturalmente incluso».