Ci sono luoghi dove il tempo si ferma. Nidi d’accoglienza dove ci si sente al sicuro, protetti dal mondo esterno, da chi ci vuole male e forse anche dal destino avverso. Ci sono luoghi che più di altri ci fanno “sentire a casa”. Posti dove ci si può chiudere in se stessi e pensare, oppure dove ci si può aprire con fiducia agli altri. Ognuno ha i suoi. E uno di questi è una vecchia villa trasformata in centro diurno per persone con disabilità, appena fuori Modena, La Lucciola, a Stuffione di Ravarino. Una struttura profondamente ferita dal terremoto del maggio 2012. Una ferita che si è ripercossa pesantemente su venticinque ragazzi con disabilità che in quel luogo avevano trovato un rifugio in cui crescere.
Qualche giorno fa, in un’altra testata, ho raccolto una testimonianza – una tra le mille possibili, di questo piccolo centro – quella riguardante Riccardo, o Ricky, come lo chiama la mamma Patrizia Ori, un tredicenne con tricotiodistrofia, termine che pur sembrando uno scioglilingua, nasconde una sindrome genetica molto rara che ha come risultato un ritardo intellettivo.
E mentre la madre mi raccontava la vita di questo tredicenne e dei suoi compagni, pensavo a cosa potesse rappresentare La Lucciola, quel piccolo angolo di paradiso, per quel ragazzo.
In troppi immaginano i centri diurni come un “parcheggio” per giovani con difficoltà. Invece, in molti casi, sono la longa manus delle famiglie nel percorso di integrazione dei figli. Una sorta di “ponte” tra il loro mondo e quella società che isola, e tende a nascondere nell’oblìo i suoi membri più deboli. Quell’àncora di salvezza e autonomia che un giorno, quando i genitori non ci saranno più, permetterà a questi ragazzi di “sopravvivere”.
«Mi piace pensare alla Lucciola – racconta Patrizia Ori – come a una palestra protetta, dove sperimentare varie esperienze di vita. Un luogo in cui i bambini, attraverso il coinvolgimento in lavori pratici di gruppo, riconquistano il contatto con la nostra società».
Oltre alle terapie, infatti, i ragazzi sono coinvolti nei normali lavori domestici (pulizie, riordino, cucina) e in quelli all’esterno, come giardinaggio, orticoltura, coltivazione e cura di alberi da frutto, trasporto legna, vendemmia e cura degli animali. Piccole attività che forse un giorno permetteranno loro di trovare un’occupazione, come la lavorazione della lana o la produzione di aceto.
Poi è arrivato lo sciame sismico a interrompere un percorso: la villa, infatti, ha subìto danni per oltre un milione di euro. Ora tutti sono al lavoro per rappezzare quel nido e Patrizia Ori ha scritto un libro per raccontare il lavoro di ricostruzione, I bimbi e il terremoto, in vendita per raccogliere fondi.
Piccoli gesti simbolici che mostrano la grande voglia di ricominciare, talvolta da zero, di una fetta cospicua di Italiani. Nelle parole di Patrizia, vedo il grande lavoro di ricostruzione iniziato in tutta la zona colpita fin dai giorni successivi al dramma, la volontà di non mollare, di avere il coraggio di ricominciare da zero. Migliaia di persone, invisibili agli occhi della società che rincorre il domani, al lavoro per ricostruirsi l’esistenza. Una società sorda che però non deve dimenticare.