Il mio disagio è di antica data. Troppo spesso, infatti, ho negli anni sentito persone in assoluta buona fede utilizzare come argomento principale, per esprimere il proprio pensiero nei confronti della condizione di disabilità, l’elogio delle capacità eccezionali, ossia del riscatto e della rivincita, che quasi sempre – a giudizio di molti – contraddistingue l’esistenza delle persone che hanno vissuto sulla propria pelle le conseguenze di un deficit fisico o sensoriale.
Il caso di Oscar Pistorius, raccontato con precisione di cronista e di esperto di comunicazione sulla disabilità, e sullo sport in particolare, da Claudio Arrigoni, nel blog InVisibili del «Corriere della Sera», e ancor più nell’instant-book Enigma Pistorius, appena pubblicato e messo in vendita nelle edicole assieme al «Corriere della Sera» (lo si può trovare per tutta questa settimana), è da questo punto di vista non solo esemplare, ma capace di scatenare ogni tipo di reazione, emotiva, intellettuale, etica, di riflessione giornalistica. Troppo forte, infatti, è il pregiudizio con il quale ciascuno di noi si pone di fronte alla notizia dell’uccisione, del delitto, del processo, della caduta di un mito “eroico”, qualunque sia poi la sua sorte giudiziaria (questa sicuramente del tutto umana). Si rischia da un lato di cercare giustificazioni nella sua storia personale (il trauma da bambino, l’irresistibile ascesa sportiva e sociale) oppure all’opposto di imputare all’uomo Pistorius proprio queste sue caratteristiche, come se fossero aggravanti rispetto a un comportamento del tutto imprevisto e gravissimo. Impossibile o quasi restare neutrali, asettici, imparziali. E questo riguarda sia il giudizio delle persone con disabilità, sia tutti gli altri, che più o meno superficialmente si accostano al tema.
Mi ha colpito qua e là – nei vari commenti prodotti dopo la pubblicazione del citato testo di Claudio Arrigoni – un sottile pregiudizio, non chiaramente espresso, nei confronti di Arrigoni stesso, ossia un giornalista “non disabile”, che in qualche modo si ritiene dunque non in grado di comprendere fino in fondo una realtà che non vive sulla propria pelle. E, quasi contemporaneamente, una specie di “pregiudizio di genere”, come se un giornalista maschio non dovesse cimentarsi nel commentare una storia di femminicidio, per usare la terminologia oggi condivisa dai media.
Ecco, io credo che entrambi i pregiudizi debbano essere decisamente rifiutati, perché alimentano quel diffuso malessere della comunicazione attorno alla disabilità, che sembra ricadere ogni volta nell’ossessione della “nicchia”, quasi una paura atavica di confrontarsi con il mondo là fuori, che è complesso, ma al tempo stesso semplice, nella sua esigenza di affrontare senza tabù qualsiasi argomento, usando ovviamente criteri di professionalità e di correttezza deontologica.
Ma il punto vero è un altro, e mi riporta alla prima riflessione. Quando ero piccolo, anche ai miei genitori veniva detto, a metà tra il consolatorio e il profetico: «Vedrete, vostro figlio è sì fragile nelle ossa, e ha conseguenze fisiche gravi, se le porterà dietro tutta la vita, ma la natura lo ha compensato con un’intelligenza superiore alla media, e vi darà grandi soddisfazioni».
Bene, io ho vissuto di rendita su questo “pregiudizio compassionevole”, del tutto privo di fondamento scientifico. Diciamo che mi è servito a combattere, a stressare al massimo le mie attività intellettuali, dalla lettura alla scrittura, alla parola, spesso polemica. Ha stimolato il mio ego, forse anche il mio narciso, consentendomi di affrontare la vita “a muso duro”, come spesso ho ripetuto negli anni, citando la splendida canzone di Pierangelo Bertoli.
Ma non era vero. E in ogni caso non c’era e non può esservi un nesso causale fra disabilità e superiorità nello sviluppo di singoli sensi o di singole abilità mentali o fisiche, o sensoriali. Lo stesso pregiudizio, infatti, vivono spesso le persone che non ci vedono: in molti sono convinti che i ciechi abbiano un udito sopraffino. Vero è che l’assenza di un senso obbliga a fare di necessità virtù, e dunque si utilizzano gli altri sensi nel modo più intenso e proficuo possibile. Ma non è una “diversa abilità”.
Ecco perché vorrei fare un vero e proprio “elogio della normalità”. Che significa semplicemente una cosa: la disabilità è una condizione umana possibile, immanente nella nostra esistenza, può verificarsi in modo temporaneo o permanente, dalla nascita o durante la vita, ma non per questo la nostra essenza ne risulta migliore o peggiore “di per sé”. Le persone con disabilità forse oggi hanno un disperato bisogno di essere considerate per quello che sono, pregi e difetti, valori e disvalori, opportunità e difficoltà, abilità e incapacità. Concentrarsi sul “superomismo” dell’handicap fa torto, prima di tutto, alla stragrande maggioranza di noi, che non eccelliamo in nulla. Ma soprattutto rischia di attribuire il merito della riuscita nella vita (dalla scuola al lavoro, dagli affetti allo sport) solo a queste “capacità nascoste”, distogliendo l’attenzione dal tema più importante, quello delle “pari opportunità”, dei diritti, delle leggi, dei servizi, che devono – questi sì – compensare l’handicap della società e dell’ambiente.
Lo sport per tutti, ad esempio, sarà nel futuro l’obiettivo più importante da perseguire, mescolando gli atleti senza discriminazioni di disabilità o di genere. I campioni restano importanti, ma sono esseri umani, e le loro imprese vanno comunque esaltate come meritano. Senza che questo diventi, però, il metro di paragone per la vita, e per tutti noi.