Geologo di professione, Alessandro Mosconi, cinquantaquattrenne monzese, «ha iniziato a scrivere – come si legge nel sito dedicato al suo libro – per raccontarsi e raccontare la sua esperienza di padre di tre figli, di cui due nati con diversi tipi di disabilità intellettiva congenita di origine casuale». Dopo avere pubblicato nel 2006 Come pinguini nel deserto (Del Cerro Editore; riedito nel 2011 da Morellini), insieme ad altri genitori, nel 2010 ha dato alle stampe Come aquiloni… o quasi (Tracce Editore), sorta di grido di speranza e di dolore insieme, che prendendo origine dal racconto per episodi della quotidianità, affronta con serietà e al tempo stesso con ironia il tema della diversità, riflettendo sui sentimenti contrastanti che essa genera in chi la vive di riflesso ogni giorno, o la sfiora casualmente anche solo per un attimo.
Strutturato in modo molto particolare, con un’ampia parte dedicata al cosiddetto AbbeceDario (s)ragionato sulla Sindrome di Down e la disabilità in genere, il libro ha già venduto più di mille copie – risultato non certo trascurabile – ottenendo anche numerosi riconoscimenti, ultimo dei quali il Premio Speciale Romanzo Testimonianza alla seconda edizione del Concorso Città di Pontremoli (premiazione in programma il 7 aprile nella città toscana).
Quando e come è nata l’idea di scrivere questo libro, unico per le sue caratteristiche strutturali, grazie ad esempio all’AbbeceDario e al Pensatoio? E come è nata questa passione per la scrittura?
«Il progetto di Come aquiloni… o quasi ha preso corpo “a posteriori”, quando mi sono accorto che in più di sei anni di scrittura su diversi forum in internet che si occupano di disabilità (specialmente nel sito dell’Associazione Pianeta Down), avevo accumulato una quantità tale di racconti, esperienze e riflessioni sulla disabilità vissuta “dalla parte del genitore” che, oltre a coprire una buona parte dello spettro di domande e dubbi che una persona si pone, incontrando la disabilità nella sua vita, forse meritava di essere condivisa anche in una forma diversa dallo scritto estemporaneo, per essere accessibile a tutte quelle persone che non hanno particolare confidenza con l’utilizzo dei moderni strumenti informatici o voglia di mettersi in gioco in prima persona in un forum di discussione. Proprio per queste ultime ho pensato in particolare che il mio sforzo potesse essere utile, mettendo a disposizione l’essenza del mio vissuto genitoriale, affinché chi vive esperienze simili alla mia o per qualsiasi ragione desideri confrontarsi con il tema della disabilità intellettiva-relazionale e fisica, possa trovare conforto nel riconoscere di non essere solo a provare determinati sentimenti (non sempre positivi!) e possa sperare in un futuro concreto di difficile immaginazione – realizzatosi in vite “reali” – oltre a trovare spunti di riflessione per interrogarsi sui propri atteggiamenti nei confronti della disabilità.
Per trasformare il tutto in un libro, non ho dovuto fare altro che “organizzare”, con un minimo di logica e sequenzialità, i miei scritti, dopo una necessaria e dolorosa selezione (anche se alla fine di tale operazione il risultato è stato ancora un “mattone” di circa 500 pagine!). Per fare questo, ho utilizzato uno dei miei “post” più ironici e che nonostante ciò ritengo più profondi, vale a dire l’AbbeceDario, sorta di dizionario (s)ragionato sulla sindrome di Down e la disabilità in genere, il cui titolo mette insieme scherzosamente il significato originale del termine con il nome del mio primogenito Dario, la persona che per prima mi ha “costretto” a confrontarmi con questa realtà. Ogni capitolo del libro inizia infatti con un breve paragrafo che descrive tutti gli “attributi” (veri o presunti tali) di un disabile che iniziano con quella lettera dell’alfabeto, a cui seguono tre racconti di vita (uno per ogni figlio, perché i miei figli sono tre, i primi due con diverse disabilità intellettive-relazionali casuali di differente gravità, e l’ultima… diversamente “normale”) e un paragrafo dedicato più alla condivisione di riflessioni intime… intitolato Il Pensatoio.
Per quanto riguarda la mia passione per la scrittura, devo dire che pur avendo amato scrivere fin da giovane, l’“urgenza” di trasformare i miei pensieri in parole scritte è esplosa prepotentemente insieme all’intima necessità di mettere in ordine sentimenti, vissuti e piccoli episodi quotidiani e significativi che hanno caratterizzato la mia esperienza di padre. Perché un libro, specie se di questo genere, si scrive prima di tutto per sé… e solo poi anche per gli altri. Per raccontar loro che oltre al dolore, alla fatica, alle difficoltà che sicuramente accompagnano la vita di un figlio disabile e della sua famiglia, c’è di più… molto di più. C’è innanzitutto la coscienza che vivere da disabile o con un disabile si può… e c’è la consapevolezza di un’umanità preziosa che spesso non viene valorizzata solo per paura, mancata conoscenza, imbarazzo. Raccontandomi come genitore, ho cercato di gettare un piccolo ponte tra due mondi che spesso comunicano troppo poco e male… affinché la conoscenza reciproca li potesse avvicinare un po’ di più. Con crudele onestà, ma anche con serenità e un po’ di sana e doverosa autoironia, indispensabile e abituale compagnia di tante famiglie che si trovano a vivere in questo mondo un po’ particolare».
Ha venduto oltre mille copie, ha ottenuto tanti riconoscimenti e premi. Quante emozioni ha provato?
«L’emozione più grande, unica, quella che “non ha prezzo” – per fare il verso a una nota pubblicità -, è quella di rendersi conto, attraverso il feedback dei lettori, che con i tuoi scritti sei riuscito a trasmettere emozioni, a stabilire un rapporto empatico con tante persone. E l’hai fatto raccontando storie di vita vissuta, reali, non “costruite” a tavolino per generare risposte emotive, ma instaurando una sorta di dialogo, solo apparentemente “a senso unico” con chi si confronta con la tua esperienza e il tuo vissuto. Perché un libro non è fatto solo da chi lo scrive, ma anche da chi lo legge… mai uguale a se stesso.
I premi hanno un’importanza relativa, in quanto a parte l’indubbia soddisfazione personale – sarebbe sciocco negarlo – valgono essenzialmente per la visibilità aggiuntiva che danno al libro, permettendo di riflesso una sua diffusione più ampia e capillare. Per raggiungere più persone possibili, con il suo messaggio comunque positivo e contribuire a creare un mondo più a misura di disabile. In questo senso il numero di copie vendute ha anche una seconda valenza: tutto il ricavato derivante dai diritti d’autore, infatti, è destinato a tre associazioni che si occupano a vario titolo di disabilità intellettiva-relazionale.
Per favorire la massima diffusione possibile, inoltre, il libro è disponibile anche in versione digitale su tutti i maggiori negozi online, in formato adatto ai principali reader presenti sul mercato (ePUB, MOBI)».
È stato difficile affrontare temi tanto delicati, come la sessualità e la fede?
«Solo parzialmente. Perché quando un argomento specifico ha un ruolo importante in un tema generale, deve comunque essere discusso. E i due argomenti in questione, indubbiamente, sono in diverso modo entrambi fondamentali nell’approccio che una persona ha nei confronti della disabilità, quella vera, non edulcorata, con la quale bisogna “fare i conti”. E così i tabù (sbagliati), le inibizioni e anche la naturale e giusta riservatezza passano in secondo piano.
In fondo, entrambi gli argomenti hanno a che fare col piano della “relazione”. Verso i propri simili, e verso Dio. E l’uomo è un’animale relazionale. Non si può prescindere quindi dal parlare di questi temi, in un modo o nell’altro, anche parlando di disabilità. E bisogna farlo con onestà e naturalezza, guardando ad esempio alle loro esigenze sessuali, siano esse istintive e/o affettive, come al naturale desiderio di pienezza di umanità che c’è in ognuno di noi, e che in ognuno di noi trova forme e modi differenti per esprimersi. Fino a poco tempo fa, ad esempio, si pensava che le persone Down non fossero capaci di sentimenti… niente di più falso. E la dimensione affettiva della sessualità è una realtà oggi sempre più presente e riconosciuta nella loro realtà, ma va accompagnata a maggiore attenzione, professionalità e delicatezza, senza atteggiamenti “rivendicatori” che affermando un’uguaglianza che di fatto non esiste… diano per scontato il diritto ad una sessualità “normale”‘. Questo vale sia per ciò che riguarda la sessualità che si esprime attraverso la corporeità, che quella “progettuale” (il desiderio di sposarsi, formare una famiglia, fare figli).
Ovviamente tutto questo, nel caso della disabilità intellettivo-relazionale, deve necessariamente confrontarsi con il concetto di responsabilità, di coscienza dei propri pregi e limiti, della capacità o meno di “prendersi cura di” e così via. Ma è un cammino possibile e doveroso, in cui ogni persona, con l’aiuto della famiglia, di una società priva di pregiudizi e di persone professionalmente capaci e preparate ad accompagnarli in questo cammino delicato ma bellissimo, può trovare un suo personale equilibrio e un proprio modo di realizzare la propria sessualità possibile. Senza preclusioni e pregiudizi, ma anche senza forzature.
Per quanto poi riguarda la Fede, che potrebbe anche essere considerata un aspetto privato e intimo della persona, io credo che comunque abbia anche una dimensione “pubblica” importante, quella che costringe a porsi interrogativi importanti, sia alla persona con disabilità che ai suoi genitori; domande che hanno a che fare con il “perché”, il “perché a me”, gli inevitabili e imperscrutabili sensi di colpa, e di come tutto ciò si riassuma nel senso che si dà alla propria e altrui esistenza, e al significato concreto delle parole “destino”, “caso”, “disegno”. Nessuno può sottrarsi a queste domande, figuriamoci se può farlo un genitore di due figli disabili!».
Grazie alle analisi prenatali, molte donne che scoprono di aspettare un figlio con sindrome di Down decidono di abortire. Manca il coraggio di affrontare una vita da genitori disabili? La scelta deriva da aspetti culturali e sociali? Nel libro scrive di quando Dario parlava davanti ad un pubblico, dando indicazioni precise a chi stava aspettando un figlio Down. E troviamo uno spunto di riflessione anche nell’Abbecedario alla lettera N “Nati”. Quali sono le principali difficoltà per un genitore che si trova davanti a una scelta così pesante?
«È un dato di fatto e la riprova è che se una volta i figli Down nascevano da coppie anziane – visto l’aumento del rischio di concepimento di bambini con questa anomalia cromosomica proporzionale all’età della madre – al giorno d’oggi nascono quasi esclusivamente da coppie giovani, tanto giovani da non rientrare nemmeno nel protocollo di “diagnostica preventiva” previsto per le madri oltre l’età considerata statisticamente a rischio. Questo vuol dire che in caso di diagnosi “positiva” (che paradosso il termine, eh?!) alla sindrome di Down, più del 90% delle coppie decide di abortire. Le persone Down che nascono sono quindi quasi sempre “sorprese” riservate a coppie giovani e inconsapevoli (queste cose capitano sempre “agli altri”!), oppure a coppie che decidono di non correre il rischio di quell’1% di mortalità del feto conseguente ad amniocentesi o a prelievo dei villi coriali e di non sottoporsi allo screening diagnostico.
Se un giorno avessimo la disponibilità di strumenti diagnostici più affidabili e non invasivi, da applicare a tappeto a tutte le gravidanze, senza rischi per il nascituro, la tendenza potrebbe quindi essere quella… all’”estinzione” delle persone con Sindrome di Down, “traguardo di civiltà” sbandierato già da alcuni Paesi del Nord Europa, come raggiungibile in breve tempo, con definizioni crudelmente asettiche come Down-free Country e similari.
Ma sicuramente in moltissimi casi la scelta di non mettere al mondo un figlio con la sindrome di Down (o anche con molte altre malformazioni, la natura è molto fantasiosa in questo!) è spesso dettata dalla paura, associata alla non conoscenza e al profondo senso di solitudine in cui due genitori vedono trasformarsi in un attimo i loro sogni e progetti futuri, l’“immagine” ideale e perciò non vera che si erano costruiti del proprio figlio. Una maggiore e più corretta informazione al momento della comunicazione della diagnosi prenatale, insieme a una rete di supporto che senza troppi discorsi mostri ai futuri potenziali genitori la realtà concreta di famiglie che vivono una vita “possibile” e “tentativamente” serena, come fanno tutti, sicuramente porterebbe a risultati diversi, e se non altro a scelte più consapevoli.
Ecco, il problema è proprio che le persone sono costrette a scegliere, spesso senza alcuna consapevolezza, da sole, e in pochissimo tempo. E questo mediamente (perché le eccezioni ci sono!) non può che portare a una decisione sola.
Della “terza via”, poi, nessuno parla mai, ma anche questa è una scelta possibile: il non riconoscimento del proprio figlio, che quindi viene dato in adozione. Ci sono veramente tante famiglie disponibili ad accogliere bambini con la sindrome di Down, a riprova che una scelta consapevole può comunque portare a soluzioni “diverse”.
Certo, le difficoltà sempre più emergenti nel settore del welfare attuale, specie nel nostro Paese (pure all’avanguardia per quanto riguarda il piano legislativo nel campo specifico della disabilità!), non aiutano a scegliere di… complicarsi la vita (perché questo sicuramente comporta, inutile negarlo, la presenza di una persona con disabilità all’interno del nucleo familiare). Ma per richiamare quanto è scritto nella sua domanda, riguardo all’AbbeceDario alla lettera N “Nati” e al parere di Dario sulla propria vita, provate a chiedere a una persona Down se è felice di esistere. Che risposta vi immaginate di poter ricevere?!».
Quanto incide il fatto che manchi un sufficiente supporto sociale ai genitori che percepiscono la nascita di un figlio disabile come una tragedia? Per esempio, come valuta l’integrazione, soprattutto nelle scuole?
«È il problema principale, come scrivevo poco sopra. Lo è già ancor prima della nascita. “Metterò al mondo un infelice?”, si domanda il genitore…, “sarà deriso ed emarginato da tutti?”…, “non potrà condurre una vita autonoma e sociale?”. Tutte domande lecite e che si radicano profondamente in una realtà certo non semplice, ma che verrebbero moltissimo ridimensionate, a fronte di una conoscenza più approfondita del mondo della disabilità.
Ricordiamoci sempre – non mi stancherò mai di dirlo! – che in Italia abbiamo la legislazione più avanzata d’Europa e del mondo in termini di integrazione, a partire dall’integrazione scolastica, per arrivare a quella lavorativa. È nelle cosiddette “buone prassi” che poi “cadiamo” miseramente, e quindi è in questa direzione che devono essere fatti i maggiori sforzi. Dalla carta… ai fatti. E tuttavia, ciò non toglie che culturalmente, in teoria, siamo molto evoluti come spinta ideale (cos’è una Legge se non questo?). Dobbiamo solo fare in modo che questa spinta ideale si trasformi in scelte concrete, in mentalità comune, in buone abitudini.
Se l’integrazione nella scuola non “gira”, è solo per colpa della scarsità e dell’inadeguatezza delle risorse, economiche e umane. Certo, siamo in periodo di crisi, e tutti devono “subire”, figuriamoci chi “costa” tanto… come un disabile (lo diceva anche un piccoletto in uniforme con degli strani baffetti e una croce uncinata sul braccio non molti anni fa!), ma ricordiamoci sempre che il grado di civiltà di una Società si misura proprio sulla sua capacità di tutelare e proteggere i suoi membri più deboli.
Far circolare queste idee per cercare di cambiare la mentalità corrente è una responsabilità cui noi genitori disabili non possiamo sottrarci. Anche per questo Come aquiloni… o quasi esiste».
Ci sono ormai tantissime associazioni per famiglie con figli disabili e su internet troviamo anche dei forum di discussione, di incontro e di condivisione delle proprie esperienze. Anche lei ha pubblicato dei contenuti in questi siti, uno fra tutti il già citato Pianeta Down di cui fa parte. Cosa ne pensa di questa rete virtuale di confronto?
«Le associazioni hanno avuto negli anni passati – e hanno tuttora – un’importanza fondamentale nel fornire supporto sul territorio, nell’indicare possibilità di assistenza, nell’unire i genitori, dando loro quella “massa critica” spesso necessaria ad ottenere quanto meno di “farsi ascoltare”, di far emergere bisogni e di far sorgere iniziative e soluzioni per venire incontro ad essi. E questa è ormai una prassi consolidata anche se non si può mai considerarla come “scontata”.
Ma internet e i forum di discussione hanno avuto il potere dirompente di permettere la diffusione e la condivisione delle emozioni, cosa resa molto più facile dal dialogo con persone “reali” sì, ma protette in un certo senso dallo schermo di un personal computer, senza quell’imbarazzo… quel naturale pudore che deriva dal contatto personale, visivo, fisico. La dimensione emotiva è così stata più libera di esprimersi, senza maschere, senza finzioni di convenienza sociale, senza “buonismi”, e in tanti si sono accorti di non essere soli, si sono riconciliati con i sentimenti non proprio “positivi” e idilliaci che provavano nei confronti dei loro figli, riuscendo così ad aumentare la propria scarsa autostima e a trasformare anche queste negatività in risorsa, a servizio della crescita dei figli. E questo a prescindere dalla territorialità, unendo persone diverse per ceto, provenienza geografica e sociale, cultura, nazionalità ecc. Perché in questo la Rete ha lo stesso approccio alla realtà che ha la disabilità: sono entrambe ineluttabilmente… “democratiche”. Un effetto, quindi, positivamente devastante.
Inviterei, in questo senso, a leggere (oltre naturalmente al mio!…) anche il libro di Autori Vari Come pinguini nel deserto, che è proprio la trasposizione senza modifiche dei thread [fili di discussione, N.d.R.] più significativi presenti nel già citato forum di discussione www.pianetadown.org e scritti tra il 2004 e il 2006. Può certamente servire ad apprezzare quanto aiuto derivi dalla condivisione di sentimenti, esperienze, realtà e vissuti».
Per la prima volta, nella storia di Special Olympics, il noto movimento internazionale sportivo di persone con disabilità intellettiva e relazionale, un giocatore italiano [Massimiliano Priolo, N.d.R.] ha partecipato dal 15 al 17 febbraio all’ All Star Game NBA, la lega professionistica statunitense del basket, a Houston, nel Texas. Di fronte a questo evento – che ci sentiamo di definire come un vero passo avanti per l’integrazione – può esprimere un suo parere, come padre di Dario, campione paralimpico di nuoto, impegnato anch’egli nelle gare Special Olympics?
«Lo spirito di Special Olympics, movimento nato negli Stati Uniti negli Anni Sessanta, per favorire l’attività sportiva, e con essa la crescita personale, l’autonomia e la piena integrazione delle persone con disabilità intellettiva, è veramente straordinario. Permette agli atleti di gareggiare innanzitutto “tra pari”, quindi per una volta di confrontarsi in una competizione (sportiva, ovvero metafora di tutte le competizioni cui ognuno di noi è chiamato nella vita quotidianamente) in cui non sono perdenti in partenza. Infatti, ogni batteria (in sport non di squadra, tipo nuoto, sci ecc.) è composta da persone di simile abilità, a prescindere dal tipo di disabilità, in modo che a fare la differenza siano “veramente” l’impegno, l’allenamento e lo sforzo profuso durante la gara. Questo insegna ai ragazzi che si può vincere, si può perdere… ma che in fondo la vera differenza la fa il “dare tutto”. Non a caso, il giuramento che gli atleti Special Olympics pronunciano all’inizio di ogni manifestazione è “Che io possa vincere, ma se non riuscissi, che io possa tentare con tutte le mie forze”!
Il ritorno di autostima che deriva da questo “sano” agonismo – che ha poco o nulla a che fare con il record, con la performance estrema, ma che valorizza lo sport principalmente come strumento di confronto con il “proprio” limite – è straordinario, e si estende a tutti i campi della vita relazionale e sociale della persona che ne beneficia.
A questo primo piano, se ne aggiunge poi un altro, altrettanto importante, quello dello “sport integrato”, dove atleti disabili e atleti normodotati gareggiano fianco a fianco in discipline generalmente di squadra, con regolamentazioni precise che non lasciano nulla al caso. Inutile sottolineare quale immenso valore possa avere una pratica sportiva come questa, al fine di promuovere l’integrazione sociale!
Dario ha svolto attività sportiva in diverse discipline, nuoto, sci, bocce, giungendo anche a partecipare ad alcune gare internazionali (bellissima l’esperienza di incontro tra ragazzi provenienti da tutto il mondo o da tutta Europa!), e ha avuto anche l’onore di pronunciare il giuramento dell’atleta di fronte a migliaia di persone, durante la Cerimonia di apertura dei Giochi Nazionali, a Roma nel 2005. Ora non fa più attività sportiva a livello agonistico, ma questa esperienza lo ha formato nel fisico e nello spirito e sicuramente gli ha permesso di crescere con più consapevolezza dei propri limiti e delle proprie possibilità, credendo in esse».
Grazie al lavoro di tante associazioni e volontari, grazie alle tante famiglie di genitori “speciali”, grazie a coloro che come lei offrono un forte aiuto, si può realmente diffondere una cultura diversa nei confronti della disabilità?
«Se non credessi profondamente in questo, vana sarebbe ogni parola, superflua ogni azione, così come inutile il mio libro e ogni momento “speso” in varie associazioni, con diversi ruoli a servizio di un cambiamento culturale che è l’unico vero obiettivo di questo agire a volte apparentemente caotico, ma sempre orientato a dare ai nostri figli – o a chi verrà dopo di loro – le stesse possibilità di giocarsi la propria umanità nel mondo che ha chiunque altro. Ricordando quanta strada è stata fatta da chi ci ha preceduto. Perché ognuno di noi fa parte di un cammino, e questa coscienza aumenta la dignità di ogni singolo gesto, teso a cambiare in meglio la cultura della disabilità».
Quali sono le sue speranze, i suoi sogni per il futuro, per i suoi figli?
«Dopo tante parole, questa è una domanda che trova nell’incredibile semplicità e brevità della sua risposta la dimostrazione dell’universalità dell’esperienza genitoriale. Cosa spero e sogno per i miei figli? Una vita serena, possibilmente “piena” di affetti, “tentativamente” felice. Il resto… è solo corollario».
Sta lavorando a un nuovo libro?
«In realtà non ancora, ma certo mi piacerebbe farlo, magari stavolta più da “scrittore”, cioè inventando storie capaci di trasmettere emozioni e idee, e aprire le menti. Mi piacerebbe tanto provare a scrivere un romanzo breve, che avesse per protagonista una persona con disabilità intellettiva-relazionale. Vedremo se ne avrò il tempo e le capacità.
Ho notato con piacere che ultimamente diversi scrittori stanno cominciando a confrontarsi con questo tema e la cosa mi rende felice, perché vuol dire che comunque la disabilità “interessa”, coinvolge, non è più relegata a tabù, ma inizia ad essere considerata come una realtà “normale” della vita, una cosa che può capitare, a tutti. E perciò interessa tutti, non solo chi ne è colpito più o meno direttamente.
Sarei felice di poter continuare a contribuire a questo processo culturale attraverso la scrittura, che è uno strumento potente, e forse il modo più efficace che ho a disposizione nelle mie povere capacità».
Come aquiloni… o quasi si conclude con una splendida poesia di auguri per tutti i nostri “Aquiloni”. Può dedicarci ancora un “pensiero speciale” a conclusione di questa intervista?
«Volentieri. Lo faccio proprio con la stessa poesia che è citata nella domanda, in realtà una canzone, visto che così è stata composta da me per dedicarla a Marco, nato quasi cinque anni fa, figlio secondogenito di un’amica che si è solo “avvicinata” al mondo della disabilità dopo un’ipotesi di diagnosi prenatale rivelatasi poi fortunatamente infondata.
La canzone fa da contrappunto finale alle parole con cui il libro inizia, che riporto qui di seguito: “‘I figli sono come gli aquiloni, passi la vita a cercare di farli alzare da terra’ (E.Bombeck). Ma non tutti i figli voleranno via… liberi e soli come è giusto che sia. Alcuni si impiglieranno nei rami di un albero, altri, troppo goffi e pesanti, o forse malcostruiti, a fatica si alzeranno da terra per ricadere subito dopo voli brevi e certamente non arditi, altri ancora magari riusciranno a volare… ma non potranno mai ‘spezzare il filo’. La forza del genitore sarà anche in quel caso quella di correre insieme a loro… magari più piano, meno spesso, e alla fine, quando correre non avrà più senso né scopo, sedersi ed abbracciarli, con la tenerezza di chi sa di aver fatto solo ciò che un genitore ‘deve’ fare: amare il proprio aquilone. (Alessandro Mosconi)”.
Ecco dunque la canzone, che è il mio augurio a tutti i genitori, a tutti i bambini, a tutte le persone che hanno il coraggio e l’allegra spudoratezza di amare la vita:
“L’aquilone – Bambino mio ti voglio raccontare / di una storia che non hai sentito ancora / Perciò apri orecchie e cuore questa sera, / a questo mio canto che sembra una preghiera: / Ti ho donato la vita, ma a che serve / se le mancherà la voglia di stupirsi… / No, non dico oggi che per te ogni cosa è novità / ma se l’abitudine ti invecchierà. / Ti ho donato poi un corpo ma che importa / se userai della sua forza solamente / per restare il primo, il più bello, e non per servire chi / ultimo, di forte e bello non ha niente? / Ti ho donato anche un cuore ma perché / se non danzerai al ritmo del suo battito… / No, non quello che fa sì che il sangue scorra nelle vene, / Intendo il ritmo quotidiano del coraggio. / Ti ho donato anche due braccia e poi due gambe / per sbrigarti ad afferrare ciò che vuoi / ma non la saggezza di guardarti dentro per scoprire / che con esse puoi ‘andare incontro’ e ‘dare’. / Bambino mio ti voglio raccontare / di una storia che non hai vissuto ancora / Perciò apri orecchie e cuore questa sera / a questo mio canto che si fa preghiera: / Ti ho donato occhi, orecchie, naso e bocca / per godere di tutto ciò che è bello / per sorridere e per piangere, ma spero anche perché / siano sempre ‘porte’ aperte a tuo fratello. / Ti ho donato poi un cervello ed una pancia / ma non l’armonia che può legarle insieme. / Sì: ragione, istinto e calcolo, paura e sentimento, / in un miracolo d’amore e libertà / Ti ho donato un sesso, solamente uno / anche se lo scoprirai che sono due, / perché (non adesso) possa un giorno innamorarti di… / di qualcuno che non sia tu stesso… ma di più. / Poi da ultimo ti ho dato anche una lingua; / Sì lo so che è ancora presto per parlare… ma spero che tu impari a usare alcune semplici parole: / Grazie, scusa, ti perdono, aiuto, Amore / Dio buono so… per te non è cosa nuova, / ma se esisti e come dicono tu sei, / prendi in braccio il mio bambino e poi stasera / ascolta il canto di questa mia preghiera… / E se vorrai, dagli ali per volare, / come un aquilone libero nel vento / senza fili che lo tengano legato… / a me… che soffrirò, felice del suo volo. / Bambino mio…”.
Mi rendo conto, rileggendo le mie risposte, di essere stato forse un po’ “serioso-palloso” ;-), ma che dire? Le domande erano troppo “importanti” per lasciarsi andare troppo all’ironia. Ma non temete… il libro invece di ironia ne è pieno, perché essa è uno degli strumenti più efficaci che abbiamo per guardare a situazioni apparentemente tragiche con sereno disincanto, e sorridere alla vita!
Se non ci credete… andate a leggervi l’ormai “famoso” AbbeceDario, nel sito www.comeaquiloni.com dedicato al libro, dove si troverà anche l’introduzione ad esso, il trailer e alcuni tra i tanti giudizi dei Lettori che si sono cimentati con il mio… “mattone”!
Grazie a Superando e in particolare a Laura Sandruvi, che mi hanno offerto con professionalità e simpatia l’opportunità e lo spazio per parlare un po’ del mio libro e di ciò che sta dietro e dentro ad esso».
Alessandro Mosconi, Come aquiloni… o quasi, Pescara, Edizioni Tracce, 2010, 496 pagine, 25 euro.
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