Di quanto sia cambiata l’esistenza dei genitori “con disabilità” (dei loro figli), tra il “prima” e il “dopo”, abbiamo già trattato tempo addietro. Oggi vorremmo parlare di qualcosa di ancor più doloroso, del “dopo di loro”, ovvero di quando il peso della disabilità prevale sulla volontà di vivere e i genitori rimangono soli.
Credo che la prima terribile sensazione sia quella della solitudine. Anche se hanno altri figli, infatti, anche se vivono in un contesto familiare armonioso e includente, i genitori che hanno perso il figlio disabile sono attanagliati da una sensazione di sgomenta, incredibile solitudine. «E adesso a cosa servo?», «cosa ne farò della mia vita?»: più l’impegno di amorevole cura è stato prolungato, intenso e pressante, più frequentemente queste domande si presentano ai genitori “superstiti”.
Le risposte sono tantissime e tutte diverse. Alcuni rifiutano semplicemente di prendere atto della realtà, non si adattano all’evidenza dei fatti, non accettano e non rielaborano la perdita, continuano a comportarsi come “prima”.
Altri soffrono consapevolmente e attraverso il dolore tornano agli altri affetti, alle altre occupazioni della vita. Recuperano persino un senso di libertà leggermente “colpevole”, si concedono quelle cose – piccole o grandi che siano – che prima non era possibile avere. Un lavoro (ma è davvero difficile tornare al lavoro di questi tempi…), un hobby, un viaggio.
Chi poi di tutto ciò che concerneva la disabilità del figlio, aveva fatto la propria ragione di vita, studiandolo, trasformandolo in un lavoro e in una passione, qualche volta continua nella sua “mission”, utilizzando i propri saperi a favore di altre persone con disabilità.
Non è la ricerca di un surrogato improbabile, lo sfogo di una pressione altrimenti incontenibile o la spinta di abitudini ben acquisite. È l’accettazione possibilmente serena di una realtà diversa, ove però si può ancora essere d’aiuto e dar senso a quello che resta di una vita.
Quella dei genitori “dopo di loro”.