Chapeau, come direbbero i francesi. Giù il cappello davanti a tanta bravura. Di tutti, del regista, degli attori protagonisti, dei comprimari, delle figure di contorno. Un film strepitoso, che ti acchiappa prima gli occhi, poi la testa, il cuore, lo stomaco, la pancia.
Le prime risate arrivano quasi imbarazzate, nel buio della sala. Ho osservato con attenzione le reazioni del pubblico. Chi ha scelto Quasi amici lo ha fatto per le belle recensioni, o per il passaparola dei primi che lo hanno visto. O per la curiosità suscitata dallo strano, clamoroso successo, ricevuto in Francia e in Germania. Ma ridere, fino alle lacrime, per le battute e per le situazioni di un film che racconta la storia di un tetraplegico ricco e di un badante irregolare di colore con precedenti per rapina è un atto liberatorio, un calcio al perbenismo, alla solidarietà stolida e pelosa, all’ipocrisia di un Paese che a parole aiuta tutti e capisce, ma in realtà se ne frega e tira dritto, pensando solo a star bene e a far soldi.
Da oggi, dunque, l’Italia dovrà fare i conti con un altro modo di vedere la disabilità. Quasi amici è soprattutto un gran bel film. A me, che vivo in sedia a rotelle da una vita, non ha svelato certo nulla di nuovo sulla condizione “fisica” di una persona che ha subito una lesione grave alla colonna, tanto da poter muovere liberamente solo i muscoli del viso, e da aver bisogno, ventiquattr’ore al giorno, di una presenza e di un aiuto umano, per svolgere qualsiasi attività, dall’igiene al vestirsi, dal muoversi al mangiare.
Ma il film non è “questa cosa qua”. Se ne frega dei dettagli, che pure sono curatissimi e precisi (con la recitazione strepitosa di François Cluzet nei “panni” di Philippe, il ricchissimo e nobile tetraplegico). Va al sodo del racconto, insegue una storia e la artiglia con la forza di un incontro tra alieni, in un mondo alienato.
Io mi sono emozionato non per la figura di Philippe, ma per la strepitosa umanità del suo improbabile e assurdo “badante”; è proprio Driss (un bravissimo Omar Sy), a schiodare i tabù, a mettere in crisi l’imbalsamata società “bene” di una Francia borghese e annoiata (come l’Italia di oggi). Uno spostato, che vive nella banlieue, che non ha mai lavorato per davvero, che non sa nulla di assistenza domiciliare, di protocolli, di Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità. E soprattutto è uno “che non ha pietà“; è proprio lui a scuotere Philippe, a ridargli la voglia, il gusto, di vivere e di trasgredire. Di colorare le notti e le giornate di emozioni. Di avere il desiderio di una donna (non virtuale, non per corrispondenza, ma vera, da amare).
“La relazione” è il segreto del film; è l’incontro fra due uomini, ognuno dei quali ha un’identità forte, apparentemente inconciliabili e invece tremendamente necessari l’uno all’altro. L’handicap se lo giocano alla pari.
Non è frequente che in un film i protagonisti siano davvero due e non uno solo. Intouchables era il titolo francese ed era il titolo giusto. Solo in Italia può venire in mente di annacquare tutto con uno stupido e per niente azzeccato Quasi amici. Ma “quasi amici” di che? I due, alla fine, sono più che amici. Sono indispensabili l’uno all’altro, anche se poi, nella realtà, le loro vite si separeranno e riprenderanno un corso “normale”.
Geniale, poi, l’intuizione di togliere dalla storia raccontata bene – ma normale nel filone della disabilità autobiografica – di Philippe Pozzo di Borgo (Il diavolo custode, Milano, Ponte alle Grazie, 2012), tutto ciò che è puramente descrittivo del suo percorso riabilitativo, dopo l’incidente in parapendio e di partire invece, con violenta immediatezza, dall’incontro con l’assistente personale Abdel (Driss nel film). Così si fa! E storceranno il naso, forse, molti disabili che noteranno la ricchezza di Philippe, il fatto che un uomo con tanti soldi può comunque decidere liberamente del proprio destino, mentre tanti altri, quasi tutti, non se lo possono permettere, anche volendo. Vero, tutto vero. Certo, la “vita indipendente” di Philippe Pozzo di Borgo, nobile e ricco di origine corsa, è fuori da ogni standard. Eppure il messaggio è stupendo e ci riguarda tutti. Il diritto alla felicità non ha prezzo, e non basta una “prigione dorata” per affrontare una vita troncata di netto. Bisogna vivere, e rischiare, e compromettersi con il mondo. E lasciare di stucco i perbenisti e i sepolcri imbiancati. Ripeto: chapeau.
*Direttore responsabile di Superando.it. Il presente articolo è apparso (con il titolo A lezione dagli “Intoccabili”) anche in InVisibili, blog del «Corriere della Sera» (di quest’ultimo si legga anche nel nostro sito cliccando qui). Viene quei ripreso, con alcuni riadattamenti al contesto, per gentile concessione di tale testata.