A più di vent’anni dalla prima diagnosi di sindrome di Rett, sono ancora molti i lati oscuri di una malattia di cui solo le bambine possono essere affette.
Ma sono ancora molte le riserve intorno alle cifre che statisticamente non rilevano le diagnosi errate o incomplete stilate in tutti questi anni e che per troppo tempo hanno confuso la malattia come un’atipica e del tutto anomala forma di autismo infantile.
La scienza l’ha definita «malattia neurodegenerativa dell’evoluzione progressiva» i cui sintomi (lento regresso psicomotorio, assenza del linguaggio, stereotipia accentuata delle mani), compaiono all’incirca fra il primo e secondo anno di vita dopo una gravidanza apparentemente normale.
L’origine è certamente genetica, ma le cause sono ancora sconosciute.
Evoluzione
Gli svedesi Hagberg e Witt-Engerström, tracciando le linee generali della sindrome di Rett, hanno delineato la sua evoluzione e gli stadi clinici che la caratterizzano:
– Fase 1 (fra i 6 e i 18 mesi).
Durata mesi: 3
– Rallentamento e stagnazione dello sviluppo psicomotorio fino a quel momento normale.
– Rallentamento della crescita della circonferenza cranica.
– Compare disinteresse nei confronti dell’ambiente circostante e del gioco.
– Irrompono i primi sporadici e strani movimenti delle mani, sebbene esse siano ancora usate in modo funzionale.
– Elettroencefalogramma (EEG): attività di fondo normale o minimo rallentamento del ritmo posteriore.
– Fase 2 (fra 1 e 3 anni di età)
Durata: settimane – mesi
– Generale deterioramento dello sviluppo fisico, psichico e irritabilità.
– Perdita dell’uso del linguaggio espressivo e dell’utilizzo funzionale delle mani con comparsa dei primi movimenti stereotipati.
– Crisi epilettiche.
– Tratti autistici.
– Insonnia.
– Comportamenti autolesivi.
– EEG: rallentamento dell’attività di fondo e graduale perdita della normale attività del sonno; P-O focali o multifocali
– Fase 3, stadio pseudostazionario (fra i 2 e i 10 anni).
Durata: mesi-anni
– Grave ritardo mentale / evidente demenza.
– Miglioramento del contatto emotivo visivo e dei tratti autistici in genere.
– Crisi epilettiche che possono essere anche quotidiane.
– Stereotipie delle mani.
– Intorno agli otto-dieci anni si manifesta una deformità della colonna vertebrale che può portare ad una scoliosi progressiva.
– Iperventilazione, aerofagia nello stato di veglia.
– Perdita di peso pur con eccellente appetito.
– Bruxismo (digrignare i denti).
– Prominente atassia e aprassia.
– Scarsa coordinazione muscolare e progressiva rigidità.
– EEG: graduale scomparsa del ritmo posteriore; rallentamento generalizzato; mancano attività al vertice e gli spindles; anormalità epilettiformi durante il sonno.
– Fase 4 (all’incirca dopo i 10 anni)
Durata: anni
– Miglioramento del contatto emotivo ed affettivo.
– Possibile peggioramento della scoliosi.
– Riduzione della frequenza delle crisi epilettiche.
– Diminuzione o perdita di alcune abilità motorie, ipotrofie muscolari agli arti, distonie o segni di spasticità.
La malattia genera indubbiamente non poche difficoltà legate a numerosi handicap: è necessario tuttavia precisare che il quadro evolutivo di essa non segue mai un percorso preordinato per tutti i soggetti. I quadri clinici di deterioramento, di miglioramento o di stasi dell’evoluzione patologica sono variabili e diversi fra loro.
Origine
La sindrome di Rett fu descritta originariamente in un articolo pubblicato da Andres Rett nel 1966, riguardante un suo studio nato da un’osservazione occasionale: il neurologo viennese, infatti, mentre attraversava l’ambulatorio del suo reparto, vide che le madri di due bambine tenevano le mani su quelle delle loro figlie. Le sollecitò a lasciargliele libere e si accorse che entrambe le bambine presentavano un’identica stereotipia, un continuo movimento delle mani una con l’altra, come se svolgessero un’attività di lavaggio: il caso gli aveva portato di fronte due bambine con la stessa malattia.
Rett colse l’importanza di questa stereotipia così particolare e, rientrando nel proprio studio, riuscì ad identificare altre bambine, viste in precedenza, che presentavano lo stesso sintomo.
Questo articolo e altre successive pubblicazioni di Rett su questo argomento furono ignorati per molti anni da gran parte degli studiosi.
Va ricordato in proposito che gli anni Sessanta sono quelli delle scoperte di nuove malattie dismetaboliche e cromosomiche e, in generale, di una particolare valorizzazione degli esami di laboratorio che mettono in ombra in parte la semiotica neurologica.
Vari neurologi dell’età evolutiva ricordano come parte della propria esperienza di lavoro l’essersi imbattuti in quell’epoca in bambine che presentavano il quadro di quella che oggi chiamiamo la sindrome di Rett, di aver sospettato una nuova, particolare malattia e di aver fatto i più complessi esami di laboratorio, che risultarono normali: dopo di che non si occuparono più della cosa.
Nel 1982, in occasione della riunione della Federazione Europea di Neuropsichiatria, tenutasi nel Norwirherhout, venne presentata la completa descrizione della sindrome di cui si ebbe la prima pubblicazione nella letteratura medica in lingua inglese l’anno successivo.
Conquista genetica
Il rapido intensificarsi delle ricerche scientifiche che hanno caratterizzato questi ultimi anni ha permesso, attraverso il grande lavoro di medici e ricercatori di tutto il mondo, di identificare il gene MeCP2. Questo è infatti il nome del gene difettoso sul cromosoma X a cui viene attribuita l’origine della patologia, che è stato identificato per la prima volta grazie alle ricerche e agli studi di Huda Zoghbi e della sua collaboratrice Uta Francke, ricercatrici presso il Baylor College di Houston (Texas).
La scoperta, apparsa su «Nature Genetics» il 1° ottobre 1999, attribuisce definitivamente l’origine genetica alla malattia e giunge dopo anni di lunghi studi e faticose ricerche nel campo genetico che hanno coinvolto, oltre ai ricercatori americani, studiosi di tutto il mondo.
La scoperta del gene responsabile della sindrome di Rett ha costituito un vero e proprio punto di svolta nello studio della malattia, non soltanto per quanto riguarda le indagini della causa della patologia, ma anche per le ricadute che le scoperte nel campo genetico possono avere in ambito clinico e riabilitativo.
Oggi, con l’identificazione del gene MeCP2, si può finalmente disporre di un indicatore (marker) biologico che può dare una diagnosi molecolare.
Si tratta certamente di un’importante scoperta scientifica che ha avuto risonanza su tutte le riviste del settore e che naturalmente giunge in un periodo di grande fermento e si affaccia al nuovo millennio carica di brillanti propositi e buone speranze.
Diagnosi
La sindrome di Rett è scientificamente riconosciuta come un disordine neurologico grave, ad eziologia (l’insieme delle cause) sconosciuta, che colpisce prevalentemente, se non esclusivamente, soggetti di sesso femminile durante i primi due anni di vita.
I principali sintomi compaiono dopo uno sviluppo psicomotorio apparentemente normale e sono rappresentati da arresto della crescita cranica con microcefalia, perdita dell’uso finalizzato delle mani per comparsa di stereotipie tipo “hand washing”, comportamento autistico, perdita della comunicazione, atassia e crisi convulsive.
L’ipotesi più spesso evocata per spiegare questi fatti è che la sindrome di Rett sia dovuta a una mutazione dominante legata al cromosoma X. Fino al settembre 1999 la diagnosi della malattia si basava esclusivamente sull’esame clinico. Da allora viene confermata, in circa l’80% dei casi, dalla genetica molecolare.
E in ogni caso è sempre opportuno che i soggetti che presentano i sintomi della malattia siano visti da uno specialista che abbia familiarità con questo tipo di patologie.
Sono stati sviluppati precisi criteri diagnostici:
– Periodo prenatale e postnatale apparentemente normali.
– Sviluppo psicomotorio nel corso dei primi sei mesi/quattro anni di vita, apparentemente normale.
– Misura normale della circonferenza cranica alla nascita con rallentamento della crescita del cranio tra i sei mesi e i quattro anni di vita.
– Perdita dell’uso funzionale delle mani tra i sei mesi e i trenta mesi, associato a difficoltà comunicative e ad una chiusura alla socializzazione.
– Linguaggio ricettivo ed espressivo gravemente danneggiati ed evidente grave ritardo psicomotorio.
– Comparsa dei movimenti stereotipati delle mani: serrate, strofinate, portate alla bocca.
– Aprassia della deambulazione (difficoltà a esercitare movimenti) e atassia (mancanza di coordinazione dei movimenti volontari) della postura tra uno e quattro anni.
Spesso accade che la diagnosi rimanga dubbia tra i due e i cinque anni.
Pur essendo più difficoltosa all’esordio e nelle forme varianti, la diagnosi è agevolata dalla conoscenza della storia naturale della malattia, che la rende assolutamente specifica e permette di differenziarla da patologie con sintomi simili e con le quali, fino a qualche tempo fa, venivano confuse (autismo, paralisi cerebrali atassiche, sindrome di Angelman, malattie metaboliche).
Attualmente gli studi epidemiologici sul ritardo mentale ci indicano che esiste una prevalenza nella popolazione infantile di circa il 3%.
Nonostante i progressi nel campo della biogenetica e di altri mezzi diagnostici, ancora oggi non si conoscono le cause del ritardo mentale nel 30% dei casi.
Recenti studi hanno evidenziato che quando una sindrome ha delle caratteristiche cliniche ben definite come quella di Rett è di estrema importanza realizzare ricerche epidemiologiche nei Paesi dove si trovano le pazienti, per poter arrivare in futuro a conoscerne meglio le varietà cliniche, l’eziologia e il trattamento e per dare un consiglio genetico alla famiglia.
Gli studi epidemiologici della sindrome di Rett compiuti in diversi Paesi hanno dato una prevalenza da 1 su 12.000 a 1 su 15.000.
Per ciò che riguarda l’Italia, gli studi epidemiologici più noti sono stati quelli descritti da M. Zappella e M. Cerioli nel Nord Italia, e più recentemente da G. Pini in Versilia.
*L’Air è l’Associazione Italiana Sindrome di Rett.