Nel febbraio scorso è uscito nelle sale italiane The Sessions, film presentato in anteprima al Torino Film Festival 2012 e al Sundance 2013, produzione indipendente, candidato agli Oscar 2013 (con Helen Hunt in corsa come miglior attrice non protagonista), oltre ad aver ricevuto varie nomination ai Golden Globes e ai Bafta.
Il film è ben costruito, particolare, originale, come la maggior parte delle produzioni indipendenti, è sorretto da una discreta sceneggiatura e da due ottimi attori, sui quali svetta il protagonista John Hawkes, magnifico interprete del poeta-giornalista americano Mark O’ Brien, vissuto realmente dal 1949 al 1999. Da un suo articolo del 1990 (On Seeing a Sex Surrogate, ovvero “Alla ricerca di un surrogato sessuale”), pubblicato dal giornale «The Sun», dalla sua esistenza reale, dal suo percorso di rifiuto e poi di accettazione e scoperta della propria sessualità, nasce questa pellicola, che ha come titolo originale, appunto, The Surrogate.
In essa, vi si descrive la fase esistenziale di Mark, gravemente disabile, nella quale affronta il suo gran senso di colpa verso la famiglia e verso Dio, e si incammina in un percorso di scoperta del proprio corpo, accompagnato dalla figura decisiva di Cheryl, terapista sessuale, che lo traghetta nella scoperta tutta nuova di un rapporto sessuale.
Sottolineo fin d’ora che la riuscita del film è parziale, poiché sia i personaggi che i dialoghi potevano essere maggiormente scolpiti, e inoltre la verosimiglianza di alcune situazioni e figure (il prete è un po’ macchiettistico, la terapista del sesso che si infatua del suo paziente è poco credibile) è fragile. La vera e unica forza del film risiede nel mostrare il personaggio principale – ottimamente interpretato nella sua atroce costrizione a vivere gran parte della sua giornata in un polmone d’acciaio, a causa della poliomelite contratta a sei anni – sorretto da quel lato caratteriale “salvavita” che si chiama ironia in ogni frase, in ogni istante, in ogni rapporto che sceglie o non sceglie con assistenti, volontari, e terapisti.
L’espressività fisica e verbale del protagonista sono inoltre straordinariamente in primo piano e rese con grande maestria (viene alla mente il grande Daniel Day-Lewis del Mio piede sinistro). E tuttavia, nel caso di The Sessions – così come in tanti lavori tratti da testi scritti – il regista Ben Lewin è riuscito debolmente a rendere le sensazioni, le frustrazioni, le gioie e le ansie di Mark, magnificamente descritte invece nel testo; e così pure la decisione, maturata con grande difficoltà interiore, di rivolgersi a una terapista del sesso per sbloccarsi e soprattutto per conoscere il proprio corpo, le reazioni al primo rapporto sessuale e ai successivi, sono frettolosamente e superficialmente tradotte in immagini.
L’importanza di The Sessions, però, non può non risiedere nell’aver dato voce a un tema grave e spinoso, quale quello della sessualità dei e nei disabili. Solo chi ha avuto la stupenda opportunità di passare del tempo ad assisterli può comprendere quanto sia forte in loro l’esigenza di amare ed essere amati: vale a dire essere accettati nelle loro mosse, smorfie e “non linearità”, non di “essere tollerati”. Mark-John Hawkes chiede tutto ciò a gran voce.
Anche solo per questo vale la pena di dedicare un po’ del nostro tempo a questo film.