I luoghi sono lontani: El Paso e il Texas, Bologna e Cremona. Storie simili, modalità diverse, costante un canestro. Ragazzi e ragazze che alzano lo sguardo: verso il cielo. Detto così sembra semplice. Mica tanto. Partiamo dal Texas e da un video che ha fatto il giro della rete. Arriviamo a Bologna, con Marco Calamai, fra i grandi allenatore di basket, che molla serie A, allori e danari, per Sofia o Antonio, l’autismo o la disabilità intellettiva e relazionale come filo conduttore. E passiamo anche da Cremona, dove hanno creato un modo di giocare che mette insieme tutti, chi ha disabilità anche fisiche e chi non.
Si parte dai Thunderbirds, squadra di basket della Coronado High School (corrispondente al nostro liceo) di El Paso, in Texas. Lì c’è Mitchell “Mitch” Marcus, team manager e giocatore. Con una particolarità: ha una disabilità intellettiva, difficile che riesca a entrare in partita. Ma lui è sempre pronto, casacca e pantaloncini in panchina. La mamma spiega: «Ama il basket».
Ultima gara della stagione, Coronado avanti di 15 punti, mancano quasi due minuti, la partita è teoricamente ancora aperta. Coach Morales guarda la panchina: «Mitch, preparati». Dal pubblico un coro: «Mitchell, Mitchell». Lui si piazza vicino a canestro, in attacco. I compagni capiscono cosa vuole il coach. Primo passaggio: perso. Secondo: preso, ma il tiro non arriva a canestro. Terzo: perso. Uhm, Mitch non riesce a segnare… Mancano tre secondi. Rimessa in difesa per la Franklin HS, gli avversari. Se ne incarica Johnatan Montagna, numero 22. Vede Mitch lì vicino, guarda i suoi compagni. Passa a Mitch. Silenzio nel palazzo. Lui si gira, guarda il canestro, verso l’alto. Tira. E segna. È festa come se Coronado avesse vinto il titolo. Mitch: «Sono felice». La madre: «Non lo scorderò mai». Johnatan: «Mi hanno insegnato a trattare gli altri come vorrei che gli altri mi trattassero. Per lui era una opportunità». Il video del canestro di Mitchell ha fatto il giro del mondo sulla rete. È lo sport.
È lo sport che Marco Calamai insegna tutti i giorni. Allenava campioni da Nazionale. Ha pensato: «E gli altri?». Gli altri sono Sofia, dieci anni e l’autismo. «Mesi a cercare di fare un passaggio. Niente: girava i polsi e la palla cadeva. Un giorno scoppia a piangere. Andai da lei e le feci scivolare il pallone sulle gambe. Sorrise. Prese un tavolo, lo mise sotto il tabellone, si fece dare un pallone e fece canestro. Poi mi diede la mano e prima di andarsene mi disse: ciao. Era la prima parola che diceva in vita sua. Una emozione indimenticabile. In quel momento ho pensato: ho fatto la scelta giusta».
La scelta è stata quella, nel 1995, di lasciare la vetrina della serie A e dedicarsi a insegnare basket e vita a ragazze e ragazzi con disabilità intellettiva e relazionale, autistici, iperattivi, con sindrome di Down, che giocano insieme a ragazze e ragazzi normodotati [se ne legga anche nel nostro giornale, N.d.R.]. Da allora i centri in Italia che seguono il suo metodo di insegnamento sono oltre venti, solo a Bologna sono quattro, gli atleti sono diventati ottocento, i momenti di incontro vanno dai Camp in Sardegna a quello di Cesenatico dal 17 al 19 maggio, dove saranno presenti persone di una decina di centri.
«Non ho inventato nulla, ho fatto solo da mediatore»: lo spiega in un libro, Uno sguardo verso l’alto (Milano, Franco Angeli, 2008). Far alzare gli occhi a chi li tieni bassi.
Da un incontro di Calamai a Cremona, nasce poi nella città lombarda il baskin, “basket integrato”: qui giocano insieme ragazzi e ragazze con disabilità fisiche e intellettive e persone normodotate. Si sviluppa nelle scuole, ma va bene dappertutto. Gli Harlem Globetrotters, mitica formazione che porta basket e gag in giro per il mondo, sosterranno questo progetto nel tour italiano a primavera, grazie all’impegno della Fondazione Cannavò. Un metodo diverso da quello di Calamai, ma che mostra come da un albero si possano sviluppare tanti rami.
Poche settimane fa, Calamai è un allenamento a Firenze. C’è Antonio, un ragazzo autistico, 22 anni. Smette di giocare, va in panchina. «Cerco di convincerlo a tornare in campo. Non riesco, non mi guarda nemmeno». Lì c’è anche Elisabetta, diciassettenne della Scuola Elsa Morante. Diventerà educatrice. «Le dico: prova tu». Lei si avvicina, parla ad Antonio. Insieme tornano a giocare. «Sono i ragazzi che fanno la differenza, che si capiscono, non è la condizione di vita a contare».
Anche per queste intuizioni il presidente Napolitano ha nominato Marco Calamai cavaliere della Repubblica. Perché sa far guardare al cielo.