Nel nostro Paese, organizzazioni come la FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap) e DPI Italia (Disabled Peoples’ International) dedicano già da un po’ parte della loro attività ai cosiddetti Disability Studies. Perché hanno capito che si tratta di un’azione politica fondamentale.
Anche il mondo accademico istituzionale negli ultimi anni ha iniziato ad avvicinarsi a questi argomenti – in modo ancora frammentato e quasi soltanto dal punto di vista dei diritti umani – e lo ha fatto chiedendo la collaborazione proprio alle suddette associazioni. Ma non era ancora successo che nascessero un gruppo di studio e una rivista a essi dedicata.
Ora, dallo scorso marzo, c’è (per vederla, cliccare qui) e la sua nascita è avvenuta nel modo più interessante, perché non è stata concepita negli ambienti “baronali” dei corridoi universitari, ma è scaturita dall’ingegno di un gruppo di giovani ricercatori indipendenti. Tra questi, di donne (per ora) ce n’è soltanto una. Si chiama Simona D’Alessio e tra le sue doti utili al gruppo c’è senz’altro quella di fare da collante e coordinare l’avanzamento della ricerca. La chiamavano “la mamma” prima ancora che mamma lo diventasse per davvero. La sua storia è quella di un’insegnante di sostegno che si è resa conto che la pratica si può cambiare solo dopo che si è cambiata la teoria. Se si vuole che le cose vadano in un certo modo, insomma, occorre prima che le persone responsabili siano convinte che quello sia il modo in cui debbano andare. Allora Simona ha studiato e si è formata, fino a diventare una delle massime esperte italiane di questo settore innovativo.
Oggi insegna inglese part-time, fa la neomamma e collabora con l’European Agency for Development in Special Needs Education. «Quest’ultima – ci spieg – è un’organizzazione europea indipendente, finanziata sia dai Ministeri dell’Istruzione dei ventisette Paesi membri, europei o che gravitano attorno all’Unione Europea, sia dalla Commissione Europea. Quest’ultima sostiene l’Agenzia tramite il Jean Monnet Programme, che fa parte del Programma Lifelong Learning Programme (LLP), lo stesso che finanzia ad esempio l’Erasmus, grazie a cui gli studenti universitari frequentano per un anno le università straniere». (Barbara Pianca)
Qual è il ruolo dell’Agenzia Europea per lo Sviluppo dei Bisogni Educativi Speciali?
«Siamo una piattaforma internazionale di scambio che mette in contatto i vari Paesi membri, per avviare confronti sulle politiche dedicate alle persone con disabilità nell’ambito dell’educazione. Io personalmente mi occupo di educazione inclusiva. Ma la rivista che ho fondato insieme agli altri non c’entra con l’Agenzia, è un’iniziativa del tutto indipendente».
La rivista è la prima in Italia dedicata ai “Disability Studies”. Cosa sono esattamente?
«Sono una nuova materia interdisciplinare il cui obiettivo è studiare la disabilità da una nuova prospettiva e non più solo come fenomeno medico individuale. Una materia interdisciplinare perché richiama studiosi ed esperti di storia, diritto, educazione, scienze sociali, sociologia, psicologia e filosofia, che osservano la disabilità intendendola come una costruzione sociale.
Una persona vive uno stato di disabilità – è in un certo senso ‘”disabilitato” – perché la società in cui è inserita ha degli elementi di inaccessibilità a vario livello che la opprimono e discriminano. La disabilità, insomma, è da intendersi più che altro come una forma di oppressione sociale in cui le persone con disabilità sono costrette a vivere a causa del modo in cui è strutturata la società.
Ogni studioso cerca nel proprio campo gli ostacoli specifici (povertà, disoccupazione, politiche educative e sociali disabilitanti, barriere architettoniche, nella comunicazione e culturali e atteggiamenti sociali) ed esplora le proposte per superarli. Non interessa qui la condizione medica. Non interessa riabilitare o assistere. Interessa trasformare, pensare cioè a una società capace di rispondere alle esigenze di tutti, anche a quelle delle persone con disabilità».
Avete dei riferimenti extranazionali?
«Certo. Devono essere extranazionali per forza perché da noi manca una vera e propria tradizione di Disability Studies. Essi nascono a partire dagli anni Settanta in ambiente prevalentemente anglosassone: Nordeuropa, Inghilterra e Nordamerica. Siamo in contatto soprattutto con il movimento britannico, capitanato da Mike Oliver e Len Barton, che hanno teorizzato il modello sociale proposto dall’UPIAS (Union of the Physically Impaired Against Segregation)».
Qual è il ruolo politico dei Disability Studies?
«Questa domanda è centrale perché i DisabilityStudies nascono con uno scopo esplicitamente politico, quello cioè di promuovere il cambiamento sociale verso un mondo in cui le persone con disabilità partecipino attivamente alla progettazione collettiva. Vogliamo liberare dall’oppressione chi la subisce, identificando le barriere che lo opprimono e permettendo a chi è stato sempre escluso di recuperare un ruolo attivo nella vita sociale.
Le persone con disabilità sono state lungamente escluse dai processi decisionali e ancora oggi l’inclusione è spesso più che altro formale. Significa che alle persone con disabilità viene al massimo consentito di scegliere tra alcune variabili già predisposte, ma difficilmente esse siedono al tavolo di discussione fin dall’inizio, quando le decisioni devono ancora venir prese. La nostra proposta è invece quella di capovolgerele relazioni di potere esistenti, dove i professionisti della medicina, del welfare e non solo decidono senza consultare chi l’oppressione la vive sulla sua pelle. Questo implica investire la ricerca di un ruolo etico, vale a dire assumersi la portata sociale e politica della ricerca, intesa come potenziale sorgente di cambiamento e responsabilizzazione dei suoi partecipanti alla ricerca».
La Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità ha contribuito a modificare la situazione nel senso auspicato dai Disability Studies?
«Mi pare più che altro a livello macro, per ora. Nel piccolo, nel concreto, i cambiamenti faticano a emergere. Però si tratta di uno stimolo fondamentale che mette in luce i princìpi cui ogni Stato aderente cercherà poi, a suo modo e a seconda dei suoi tempi, di conformarsi».
Qual è il ruolo dell’Università in tutto questo?
«Il ruolo dell’Università dovrebbe essere quello del cosiddetto critical friend, ossia di osservatore in grado di offrire una critica costruttiva, necessaria alla trasformazione culturale e al miglioramento delle condizioni di vita delle persone con disabilità e non. In generale dovrebbe contribuire a creare una società più giusta e più equa da cui tutti possiamo trarre beneficio.
Purtroppo oggi le Università non sempre sono un faro per la guida verso il cambiamento, soprattutto in Italia, dove spesso si assiste a un’azione conservatrice (dal punto di vista culturale, ma non solo) delle relazioni di potere esistenti e quindi a un mantenimento dello status quo… è triste ma è così. Sono però fiduciosa che qualcosa cambi nel prossimo futuro, sia grazie al lavoro che stanno facendo le organizzazioni delle persone con disabilità come la FISH, sia grazie a quello di studiosi di stampo internazionale i cui lavori cominciano ad entrare nelle nostre biblioteche. Di fatto, però, ad oggi manca ancora una sistematizzazione dei DisabilityStudies a livello accademico in Italia. A parte due eccezioni, non ho trovato finora nessun Ateneo interessato a muoversi in questo senso».
Quali sono le due eccezioni?
«L’Università di Bergamo, grazie soprattutto al professor Roberto Medeghini, fondatore della rivista «Milieu», dedicata alle culture dell’inclusione, e al professor Walter Fornasa, ai quali ci appoggiamo per il nostro progetto editoriale. Anche due dei fondatori della nostra rivista, Giuseppe Vadalà ed Enrico Valtellina (ricercatore con sindrome di Asperger che però si dovrebbe spostare nell’Ateneo veneziano), sono ricercatori a Bergamo.
L’altra eccezione è l’Università di Reggio Calabria, dove lavora Angelo Marra, ricercatore e attivista con disabilità, autore di uno dei primi testi italiani dedicati al tema della disabilità da un punto di vista giuridico. Marra, che è stato anche lui uno dei primi ideatori della nostra rivista, è il creatore di una mailing list nazionale chiamata Disability Studies Italy».
Dove inserirebbe i Disability Studies nei percorsi di studio universitari?
«All’interno dei corsi di sociologia dell’educazione, pedagogia speciale (che io non chiamerei “speciale” perché secondo me è un termine discriminante), scienze della formazione, medicina, filosofia e giurisprudenza».
Com’è nata l’idea della rivista?
«Nasce su iniziativa personale mia e di Giuseppe Vadalà. Ci incontravamo ai convegni e confrontandoci abbiamo condiviso il desiderio di intervenire nella situazione attuale, modificandola. La nostra è anche una scelta di rottura con il mondo accademico istituzionale che, come ho appena spiegato, è lento e conservatore.
Dopo aver parlato con Giuseppe, ho fatto una ricerca in internet per trovare altri ricercatori indipendenti nel nostro campo e così ho conosciuto Marra, che si è aggiunto a noi due. Abbiamo cominciato nel 2009 a scrivere i primi testi, a collaborare, a discutere. In un secondo momento ci hanno affiancato anche Valtellina e Stefano Onnis, etnoantropologo della Sapienza di Roma. Ci abbiamo messo due anni a realizzare il primo numero, che ha l’intento di dare una voce al dibattito italiano. Ora cercheremo di mantenere la cadenza semestrale. Stiamo lavorando al secondo numero, che vorremmo incentrare sulla ricerca emancipativa, ma il fatto è che facciamo tutto questo su base volontaria e quindi nei ritagli di tempo. Siamo liberi ricercatori che credono in questo progetto, ad oggi del tutto privo di finanziamenti».
Ci può presentare il primo numero?
«Nel primo numero ci sono sette articoli (incluso l’editoriale), più una traduzione ed una recensione.Vi ha anche collaborato Giampiero Griffo del direttivo della FISH. Non esiste un tema monografico per questo primo numero, ma poiché i DisabilityStudies in Italia ancora non esistono in modo strutturato, abbiamo cercato di rendere forte la nostra voce, dichiarando che è arrivata l’ora di offrire loro uno spazio di dialogo e di dibattito.
Siamo in pochi e se non facciamo rete sarà difficile contribuire alla nascita e diffusione di queste nuove teorie. La nostra è una voce alternativa, non per forza migliore o peggiore, ma decisamente diversa e nuova».
Ma perché si è dovuto aspettare così a lungo per avere una rivista italiana dedicata a questa materia, mentre altrove gli studi sono ormai strutturati da diversi anni?
«Intendo scrivere un testo su questo argomento: secondo me – è una mia considerazione personale – in Italia l’influenza della Chiesa Cattolica e dei professionisti della medicina ha rallentato i processi di emancipazione delle persone con disabilità. Molte delle associazioni storiche, ad esempio quelle raccolte sotto il cappello della FAND (Federazione tra le Associazioni Nazionali delle Persone con Disabilità), erano associazioni per le e non delle persone con disabilità. Il loro scopo era soprattutto di solidarietà e assistenza. Operavano per ottenere aiuti e finanziamenti.
La qualità innovativa della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap) sta proprio nel proporre la capacità di autorappresentarsi. Ma la sua azione è ostacolata da forme diffuse di pensiero assistenzialistico di derivazione medica e, in secondo luogo, religiosa. La religione, spesso, spiega la disabilità come una “volontà divina” cui non bisogna opporsi. Propone l’accettazione, che a livello sociale ha avuto un effetto anestetizzante perché ha impedito alle persone di credere nelle proprie potenzialità e nei propri sogni.
Non voglio esagerare, riconosco anche il ruolo positivo della Chiesa. Grazie infatti alla sua influenza, le persone con disabilità prima rinchiuse in casa sono state portate fuori e hanno ottenuto una dignità. Ma purtroppo proprio quello stesso approccio caritatevole ha poi bloccato il passo successivo, che è quello della rivendicazione sociale».