Con un provvedimento emesso nei giorni scorsi, la Corte di Giustizia di Lussemburgo dell’Unione Europea – aumentando sostanzialmente le tutele per i lavoratori che si ammalano -, ha stabilito che le malattie inabilitanti – curabili o meno che siano -, vanno considerate, ai fini del lavoro, come vere e proprie «disabilità», quando comportano «limitazioni di lunga durata», come risultato di «menomazioni fisiche, mentali o psichiche». Per i Giudici continentali, quindi, va prevista anche la riduzione dell’orario, per consentire di continuare a svolgere il lavoro.
Nello specifico, la Corte si è espressa sul caso di due lavoratrici danesi, rilevando che le attuali normative europee «non ammettono una disposizione nazionale secondo cui un lavoratore possa porre fine al contratto di lavoro con un preavviso ridotto, qualora il lavoratore disabile sia stato assente per malattia per 120 giorni nel corso degli ultimi 12 mesi», quando «tali assenze siano state la conseguenza dell’omessa adozione, da parte del lavoro, di misure di adattamento adeguate e ragionevoli per consentire alla stessa persona con disabilità di lavorare».
Pur osservando quindi i Giudici che «spetta al Giudice Nazionale valutare se, nella specie, la riduzione dell’orario di lavoro quale misura di adattamento rappresenti un onere sproporzionato per i datori di lavoro», si tratta certamente di un provvedimento degno di nota, in linea con gli stessi princìpi della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, ove ad esempio all’articolo 27, comma i) di essa (Lavoro e occupazione), si sancisce che gli Stati «garantiscano alle persone con disabilità accomodamenti ragionevoli nei luoghi di lavoro». (S.B.)
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