In una Torino piovosa si è svolta la due giorni (20 e 21 aprile) di un convegno dedicato ai siblings – termine inglese che, senza far distinzione di genere, indica i fratelli e le sorelle delle persone con disabilità -, incontro organizzato dalla Fondazione Paideia.
Un’altra buona occasione, quindi, per osservare l’“altra faccia della luna”, quella che rappresenta chi troppo spesso in famiglia è invisibile, perché bisognoso di meno cure e attenzioni: appunto il fratello o la sorella della persona con disabilità. Persone che vivono sulla loro pelle ciò che accade al congiunto, ma che spesso sono considerate troppo giovani per assumersi il peso e la responsabilità di determinate scelte, come la gestione del futuro della persona con disabilità grave. “Giocatori in panchina” che hanno la consapevolezza che in un futuro vicino o lontano dovranno scendere in campo accanto alla persona con disabilità, ma che al momento non possono quasi profferir parola sulla “gestione della squadra”.
Difficile forse trovare un fil rouge dell’evento in questa varietà di sensazioni. E così, senza la pretesa di essere esauriente, mi piacerebbe evidenziare le parole che con maggior forza sono scaturite dai pensieri dai protagonisti. Pensieri come quelli di Arianna di 18 anni, con fratello autistico; Cristina di 35 anni, con sorella con paralisi cerebrale; Niccolò, 24 anni, con sorella autistica, Deborah, 33 anni, sorella di Damiano con disabilità cognitiva… Eccone alcune.
Solitudine
«Quante volte avrei voluto avere insieme mamma e papà per me, anche solo per pochi minuti. Facevo le vacanze ora con l’uno ora con l’altro, loro si alternavano per non lasciar sola mia sorella», racconta Selene, 40 anni, riflettendo sui suoi ricordi da bambina. Ma non c’era tempo: la sorella Tiziana, 42 anni, con disabilità fisica e cognitiva, assorbiva le attenzioni e le energie dei familiari.
La “solitudine dei numeri due”, potrebbe essere il titolo che raccoglie in sé anche la sensazione di questi ragazzi e adulti di essere stati messi un po’ da parte durante la loro giovinezza, essere o essere stati i secondi – vengono prima le esigenze del fratello con disagio e poi le loro -, di essere cresciuti potendo disporre di meno attenzioni di quelle che si sarebbero aspettati e avrebbero voluto. Una sorta di carenza di affetto che poi li ha condizionati nella vita e ne ha formato il carattere, schivo e introverso per alcuni, ribelle o protettivo per altri.
Spiegazioni
«Abbastanza grandi per gestirsi da soli, per accettare le rinunce e le fatiche della situazione, ma troppo piccoli per ricevere spiegazioni» chiosa un altro dei protagonisti. «I genitori, anche per un senso di protezione, tendono a non ritenerti mai pronto per ricevere le spiegazioni del “male” di tuo fratello». Una difficile condivisione dei problemi, quasi che la gestione della disabilità pesasse in toto sulla coppia di genitori, come se fornire spiegazioni scaricasse le responsabilità sui fratelli o sulle sorelle. Crescere interrogandosi sul perché, senza la possibilità di confrontarsi con il mondo degli adulti o di coetanei con gli stessi problemi familiari ha acuito, secondo alcuni dei testimoni all’incontro di Torino, quella che è ben rappresentata dalla successiva parola clou: il senso di colpa.
Senso di colpa
Un concetto forse più difficile da comprendere rispetto ai precedenti per chi non vive una situazione di difficoltà. Perché chi ha un fratello o una sorella con disabilità dovrebbe avvertire un senso di colpa? Il sentirsi inadeguati, il vivere due vite, la propria e quella del caregiver, fa parte del bagaglio di ogni sibling. Il senso di colpa nasce dalla sensazione di non riuscire a vivere completamente nessuna delle due esistenze.
«Se porto avanti la mia famiglia, mi prendo cura di mio figlio – racconta Deborah – allora mi accorgo di non avere il tempo per mio fratello disabile. E viceversa, se dedico tempo a mio fratello, mi sento di avere rubato qualcosa a mio figlio». Perennemente tirati per la giacchetta dai doveri, non si trova il tempo per sé, per comprendere e realizzare se stessi. E si arriva a pensare come sarebbe stata bella la vita senza l’ingombrante presenza del fratello disabile. Per poi provare un profondo senso di vergogna per quel pensiero.
Risentimento
Risentimento, che fa il paio con rabbia. Altri due termini, di profonda umanità, che emergono dalla confessione di alcuni ragazzi: risentimento e rabbia verso la vita, ma anche verso quei genitori che li hanno “abbandonati” per curare il fratello o la sorella in difficoltà. Rabbia verso il fratello che – incolpevole – sta causando tante difficoltà, che è causa della tristezza dei genitori.
Amore
È l’amore profondo, che alcune donne e ragazze del gruppo hanno espresso incondizionatamente per quel “cucciolo indifeso” che è il loro fratellino o sorellina. Come Arianna (che vive in famiglia con il fratello autistico, autrice di una mostra fotografica sull’autismo), che con dolcezza dice: «Ora che devo andar via da casa per studiare all’università, non so come farò senza mio fratello. Abbiamo pochi anni di differenza e siamo cresciuti in simbiosi. Non abbiamo mai vissuto lontani per più di qualche giorno. Ma devo costruirmi un futuro per poi poter prendermi in carico anche lui».
O come Paola, sorella di una ragazza con sindrome di Down, che afferma: «Quando nacque Elisa pensammo: la satureremo d’amore, così se non lo riceverà dall’esterno ne avrà abbastanza. In realtà ne abbiamo ricevuto da lei più di quanto ne abbiamo donato».
Condivisione
Più che una parola è un consiglio e una richiesta che i siblings hanno lanciato da Torino. Una sfida per i genitori che stanno vivendo situazioni di difficoltà. Una parola ricca di significato. Condivisione di informazioni e quindi spiegazioni anche in tenera età, condivisione nel senso di socializzazione, ovvero la necessità dei ragazzi di vivere magari anche solo una vacanza, con coetanei che hanno le stesse problematiche. Ma soprattutto condivisione delle responsabilità, per costruire insieme il futuro di entrambi i ragazzi, con o senza disabilità.