Ora non ci sono più alibi. Usare le parole giuste è “parlare civile”. La comunicazione e le parole sono la prima forma di discriminazione. È così che si forma e si alimenta lo stigma. E non si pensi che questo riguardi solo i giornalisti. Siamo tutti comunicatori: blog, siti, gli stessi social network, da Facebook a Twitter a Google+, fanno circolare le idee attraverso le parole. Se cambiamo uno status su Facebook, facciamo comunicazione. Ecco perché l’attenzione al linguaggio è ancora più importante. Per tutti.
Ora, poi, ci sono ancor meno scuse per chi utilizza termini sbagliati. «Redattore Sociale», benemerita agenzia di comunicazione nata dalla Comunità di Capodarco, ha recentemente curato, infatti, un volume assai interessante e utile, Parlare civile. Comunicare senza discriminare (Bruno Mondadori, 2013).
Si tratta di un problema sul quale da tempo scriviamo, sempre suscitando grande interesse e anche, stranamente, polemiche. Riguardo alla disabilità, l’indicazione è semplice e permette poi di capire meglio come si possa scegliere il linguaggio più giusto: utilizzare “persona con disabilità”, mettendo la persona al primo posto ed eventualmente, se servisse, facendo seguire la sua condizione. Basta con: “invalido”, “diversamente abile”, “disabile” e tanto meno “handicappato” o “ritardato”. Chi è nato con la sindrome di Down non è “un down”, ma una “persona con sindrome di Down”. E via di questo passo.
Sembra una riflessione banale, ma non lo è. Eppure su questa indicazione, nata alla fine degli Anni 80 e codificata anche dalla Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità (Legge 18/09 del nostro Paese), ci sono state discordanze. Perché il linguaggio spesso divide, quando dovrebbe invece unire. Rifletterci è bello e utile anche per questo.
Gli esempi di linguaggio che porta lo stigma sono moltissimi (basti pensare alle campagne sui “falsi invalidi”, di cui abbiamo scritto anche nei giorni scorsi). L’ultimo è di ieri e lo riporta anche «Corriere.it», in un esauriente articolo di Cesare Peccarisi: una criminologa, di quelle che ormai popolano la nostra televisione, ha messo in relazione epilessia e violenza sul caso di Sarah Scazzi, fra l’altro usandola come ipotesi senza sapere nulla, come hanno denunciato le associazioni che lavorano sull’epilessia.
In una trasmissione del pomeriggio, spiegano dalla FIE (Federazione Italiana Epilessia), «Roberta Sacchi, intervenuta quale esperta criminologa, ha dichiarato, a proposito del Sig. Michele Misseri, che “non sappiamo se soffre di epilessia o se non ha sofferto e non soffre di crisi epilettiche” e che “potrebbe essere che ha ucciso in preda ad una crisi epilettica e non lo sa”». Parole sbagliate e offensive, dette con una leggerezza sconcertante davanti a milioni di persone. Ecco l’importanza del linguaggio.
L’ottimo lavoro di «Redattore Sociale» (coordinato da Stefano Trasatti, direttore dell’Agenzia, e Antonio D’Alessandro di Parsec, redatto da Raffaella Cosentino, Giorgia Serughetti e Federica Dolente, con l’aiuto di esperti dei vari settori, fra i quali, per la disabilità, anche Franco Bomprezzi, direttore responsabile di questa testata) mette ordine.
Parlare civile è un manuale sui principali temi a rischio discriminazione e il linguaggio per parlarne. Un viaggio in otto capitoli alla ricerca della comunicazione più precisa e accurata su argomenti quali disabilità, genere e orientamento sessuale, immigrazione, povertà ed emarginazione, prostituzione e tratta, religioni, Rom e Sinti, salute mentale.
Presentato a un recente seminario a Roma [se ne legga la presentazione nel nostro giornale, N.d.R.], non è solo un libro, ma un progetto più ampio, collegato a un sito già esistente, ma che da ottobre avrà la sua veste definitiva, con continui aggiornamenti. Perché il linguaggio si evolve e cambia e quello che riteniamo giusto oggi (ad esempio la locuzione “diversamente abile”, che quando qualche anno fa venne proposta da Claudio Imprudente poteva avere un senso, ora lo ha perso), domani non lo sarà forse più.
Il senso del lavoro è proprio quello di dare strumenti per comunicare nella maniera migliore e più rispettosa, in modo da abbattere discriminazioni e non accrescere lo stigma su condizioni che possono avere questo rischio: «Le parole – si legge nel volume – possono essere muri o ponti. Possono creare distanza o aiutare la comprensione dei problemi. Le stesse parole usate in contesti diversi possono essere appropriate, confondere o addirittura offendere. Quando si comunica occorre però precisione, bisogna avere consapevolezza del significato, del peso delle parole. Non è facile, perché il tempo è sempre poco, perché viviamo nella nostra cultura, perché il senso e la percezione delle parole si evolvono continuamente. Non è facile, ma è necessario».
Non c’è da vergognarsi a parlare correttamente. Lo ha spiegato bene il sociologo Luigi Manconi, durante il seminario di presentazione di Parlare civile: «La questione del politicamente corretto – ha affermato – è terribilmente seria. I livelli di civilizzazione nei sistemi di relazioni sociali ovvero i livelli di crescita dell’integrazione all’interno delle comunità organizzate producono delle convenzioni linguistiche. Una di queste è il “politicamente corretto”, che ha uno scopo preciso: quello di ridurre l’effetto denigratorio e offensivo di determinate parole e attraverso ciò di ridurre le procedure di discriminazione e di diseguaglianza che il linguaggio sociale contribuisce a determinare».
«Chi parla male, pensa male»: prima di Nanni Moretti, lo diceva Ludwig Wittgenstein. Usare il linguaggio e le parole corrette fa migliorare la società.