Spiegare alle famiglie con disabilità chi è Salvatore “Tillo” Nocera è un po’ come dire ai pesci dov’è il mare: lo sanno da sempre. Nocera, infatti, accompagna, consiglia e protegge l’integrazione scolastica di qualità delle nostre ragazze e dei nostri ragazzi da quando abbiamo memoria.
Ma parlare di Nocera solo sotto questo aspetto è troppo riduttivo. Vediamo dunque di scoprirne altri pregi segreti.
Raccontaci un po’ della tua infanzia, caro Tillo, e di quando sono iniziati i tuoi problemi con la vista.
«All’età di 4 anni ho cominciato a vedere male e nel giro di pochissimo ho perduto la vista all’occhio destro, mentre si riduceva notevolmente quella dell’occhio sinistro. I miei genitori mi portarono a Roma dal primario della Clinica Oculistica del Policlinico Umberto I professor Cavara, ma non ci fu nulla da fare per l’occhio destro e si cercò di bloccare la progressiva riduzione all’occhio sinistro, ritenuta un’incipiente cataratta favorita da uno stato generale di debolezza. Mi furono prescritte cure a base di mercurio, da spalmare sotto le piante dei piedi la sera e aria di montagna… Pur essendoci già la guerra, la mia famiglia tornò in Sicilia e ripartì per Soprabolzano, dove rimanemmo sino a quando cominciarono i rastrellamenti tedeschi; allora ci spostammo a Pallanza sul Lago Maggiore. Lì frequentai la scuola materna con molto ritardo, sino all’età di 8 anni, quando, nel 1945, finita la guerra, potemmo far ritorno a Gela».
Com’era, all’epoca, il rapporto tra disabilità, scuola e poi università?
«Alla fine degli Anni Quaranta a Gela non c’erano mai stati alunni minorati della vista o con altre disabilità (tranne che con difficoltà di deambulazione) nelle scuole. La mia famiglia – non volendomi mandare all’Istituto per Ciechi di Catania – decise di provvedere per l’istruzione domestica e così ho studiato per le quattro classi elementari a casa con una maestra e ho sostenuto gli esami di quinta elementare come privatista. Nel ’49, poi, mi sono iscritto e ho frequentato la Scuola Media Statale a Gela, con molta collaborazione da parte dei miei docenti e dei compagni, in classi allora poco numerose, che hanno certamente facilitato l’assistenza didattica da parte dei docenti e la socializzazione e l’instaurarsi di seri rapporti amicali coi compagni.
Successivamente ho frequentato il Liceo Classico e ho preso la maturità senza particolari problemi grazie ai miei insegnanti (all’epoca non erano specializzati, ma avevano una buona professionalità) e ai miei compagni che mi aiutavano a prendere appunti a scuola e nei compiti a casa. Parimenti all’Università, alla Sapienza a Roma, ove mi sono laureato con lode nel ’61».
Terminati gli studi quali difficoltà hai incontrato nel mondo del lavoro?
«Il mio lavoro è stato dapprima come assistente volontario all’Università – ove ho avuto la fortuna di avere come colleghi di ruolo personalità come Rodotà e Lipari – e qui non ho avuto alcun problema nello svolgere esercitazioni orali e nel condurre esami insieme con un collega, il quale provvedeva a chiamare per nome i candidati e a scrivere sul verbalino e sul libretto i voti dell’esito. Quanto allo studio, in parte leggevo molto lentamente con un occhialone telescopico e in parte leggevano per me amici, familiari e una persona pagata per farlo.
Quando ho cominciato a insegnare nelle scuole, nel ’64, non ho avuto grandi problemi; allora vedevo un po’ e riuscivo a tracciare grafici di economia alla lavagna, mentre per le lezioni di diritto avevo imparato a memoria il numero degli articoli fondamentali del Codice e li indicavo agli alunni perché li leggessero ad alta voce per tutta la classe.
Quanto al registro, lo facevo gestire dagli alunni, sia per segnare le assenze che per gli argomenti delle lezioni, e pure per i voti; per questi, però, avevo preso la precauzione di registrarmeli su un magnetofono tascabile. La cosa di far gestire il registro piacque molto ai ragazzi e mi servì molto per aiutarli ad auto valutarsi, dal momento che conoscevano il voto da me assegnato.
Quando nei primi Anni Ottanta andai come comandato al Ministero, trovai nei miei colleghi di lavoro piena collaborazione quando si trattava di scrivere qualche nota o risposte a quesiti; in buona parte lavoravo col telefono. Allora non si usava ancora il computer. Memorizzavo sempre gli estremi della normativa legislativa e amministrativa, relativa ai singoli argomenti e ciò mi serviva per le risposte scritte od orali e mi dava molto credito presso i colleghi, che sempre più spesso si rivolgevano a me per avere le indicazioni immediate di testi normativi. Divenni presto la “memoria storica” dell’ufficio, malgrado il cambiare dei colleghi, dei dirigenti e della normativa. Fui quindi sempre più frequentemente mandato in giro per l’Italia a convegni e seminari sulla normativa per l’inclusione degli alunni con disabilità, in rappresentanza dell’ufficio e quale esponente del Ministero agli esami dei corsi di specializzazione per il sostegno».
Siamo “famiglie con disabilità”. Come e quando hai formato la tua?
«Mi sono sposato nel ’67, appena vinto il concorso nella scuola. Avevo conosciuto meno di un anno prima mia moglie che, venuta dal Friuli Venezia Giulia, studiava Lettere a Roma. Ci siamo conosciuti tramite una signora che veniva a leggere per mio conto a casa e abbiamo deciso di sposarci dopo sei mesi di fidanzamento, poiché ci vedevamo tutti i giorni e discutevamo del nostro futuro. Il nostro matrimonio è sempre stato caratterizzato da un rapporto “alla pari”, nel rispetto delle professioni specifiche (mia moglie è insegnate di lettere) e nella condivisione degli interessi comuni.
Abbiamo una figlia che, divenuta grande, mi ha molto aiutato al computer, quando c’era da effettuare un’operazione difficilmente realizzabile con la sintesi vocale o quando c’erano da eliminare errori provocati da me, con l’uso di tasti sbagliati. Mia figlia ha sempre avuto una grande pazienza, ma non ha alcun timore di ribellarsi, se si accorge che sto abusando del suo tempo, specie quando potrei lavorare da solo con la sintesi vocale. Il mio nipotino, poi, inizia a contendermi il computer per i suoi giochi!».
Come è nato il tuo rapporto con l’associazionismo?
«Iniziai iscrivendomi al Movimento Apostolico Ciechi (MAC), un’associazione mista di non vedenti e vedenti, diventandone poi presidente e nella quale riuscii a far prevalere la cultura dell’inclusione e dell’integrazione scolastica.
A seguito di frequenti contatti con altre associazioni, venni a conoscenza delle problematiche legate ad altre forme di disabilità; animato dallo spirito del volontariato che mi era stato inculcato da amici carissimi, come Luciano Tavazza, fondatore del Movimento di Volontariato Italiano e monsignor Giovanni Nervo, uno dei fondatori della Caritas Italiana e della Fondazione Zancan di Padova, mi sono dedicato alla FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap), soprattutto da quando sono pensionato e ho maggior tempo disponibile.
Il periodo trascorso al Ministero, dall’inizio degli Anni Ottanta al 2000, durante il quale mi sono occupato della normativa relativa all’inclusione scolastica, mi è stato poi utilissimo per il lavoro nelle associazioni. Proseguo poi la mia attività nell’AIPD (Associazione Italiana Persone Down), ove sono consulente giuridico, e nella pubblicazione di numerosissimi studi e monografie, scritti grazie al sistema di sintesi vocale collegato al computer, messo a punto da un amico carissimo nonché collega avvocato divenuto cieco, Giulio Nardone, presidente dell’ADV (Associazione Disabili Visivi)».
Com’era la FISH “da bambina”?
«Durante la “gestazione”, la FISH era una cosa informe e molto sfuggente. Ricordo di interminabili discussioni tra rappresentanti di associazioni che non si conoscevano, si insultavano, cercavano di prevaricare gli uni sugli altri e via così. Il dialogo si protraeva talora anche sino a notte fonda, per chiarirci le finalità e formulare gli articoli dello Statuto.
Per mia natura sono abituato a dialogare con tutti, anche con chi la pensa al contrario di me e talora sono riuscito a mediare tra posizioni contrapposte. Ci abbiamo messo circa un anno, ma ce l’abbiamo fatta e la FISH è partita nel ’94. In essa io non rappresentavo alcuna associazione di persone con disabilità, ma il Movimento di Volontariato Italiano (Mo.VI.), il cui spirito informatore di servizio e superamento di ogni interesse di parte mi ha aiutato moltissimo a contribuire a creare un clima di dialogo, mediazione e soluzioni concrete».
E il tuo rapporto con il potere? Una volte si diceva che “il potere corrompe”, anche se personalmente credo che a corrompere sia il potere senza adeguati controlli. Come hai fatto a mantenerti “puro di cuore” dopo tanta frequentazione di Ministri e Ministeri?
«Fortunatamente non ho mai gestito il potere. Quando ero Presidente del Movimento Apostolico Ciechi, avevo imparato che nelle associazioni di persone con disabilità bisogna evitare il rischio, assai diffuso, dell’identificare la presidenza con l’associazione. Per questo avevo avuto dei problemi ad inserirmi nell’UIC, l’allora Unione Italiana dei Ciechi, oggi UICI (Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti). E quindi nel MAC ho voluto che il Consiglio Nazionale collaborasse pienamente nelle decisioni da assumere. Poi, nelle associazioni cattoliche, noi laici gestiamo poco potere, perché c’è la presenza dell’assistente ecclesiastico che condiziona molto il potere dei dirigenti laici. Nella FISH, infine, il potere gestionale è fortunatamente ripartito tra i membri del Direttivo Nazionale.
Quanto ai rapporti con i Ministri, debbo dire che non ne ho mai avuti. Ho sempre avuto contatti anche stabili coi Sottosegretari che di volta in volta avevano la delega per l’inclusione scolastica, ma i miei rapporti migliori e più proficui li ho avuto sempre con i dirigenti e i funzionari del Ministero, perché erano competenti nella loro materia e quindi ci si intendeva con facilità, anche quando si era su posizioni diverse. Ho serbato un ottimo ricordo di tantissimi funzionari e continuo a mantenere ottimi rapporti con gli attuali dirigenti
L’unico rapporto con un uomo di potere al Ministero è stato col Capo di Gabinetto del ministro Luigi Berlinguer nel ’99: si trattava del direttore generale Giovanni Trainito, che però da giovane era stato mio compagno di scuola dalla Scuola Media al Liceo di Gela e quindi ci conoscevamo benissimo, e ritengo che se la normativa ministeriale degli Anni Ottanta e Novanta è di buona fattura non solo formale, lo si debba anche alla sua esperienza di mio compagno di banco e di studio pomeridiano e di amico fraterno.
Anche la Medaglia d’Oro assegnatami dal presidente della Repubblica Ciampi nel 2003 è frutto della stima mostratami da un Direttore Generale, che mi aveva conosciuto subito dopo il mio pensionamento, durante le mie reiterate frequentazioni e discussioni ministeriali».
Hai un augurio o una raccomandazione per le nostre famiglie?
«Ho conosciuto tantissime familgie in questi miei lunghi anni di lavoro al Ministero e con le associazioni! E continuo ad avere rapporti con molte di loro tramite il sito da me curato presso l’AIPD.
Una raccomandazione che rivolgo è che non pretendano dai loro figlioli più di quanto essi possano dare. È bene spronare i nostri ragazzi a fare sempre meglio e di più; però mi capita di assistere impotente a casi in cui le famiglie di ragazzi con gravi disabilità intellettive pretendono che essi facciano sacrifici enormi per poter ottenere il diploma di maturità. Ritengo che ciò sia più una comprensibile – ma non giustificabile – aspettativa delle famiglie, che però non rispetta le aspirazioni dei figlioli, che più che a competere con altri o ad avere dei diplomi, desiderano avere una vita serena e dei riconoscimenti affettivi e personali, più che titoli legali, poi praticamente inutilizzabili ai fini del lavoro.
Altra raccomandazione che mi permetto dare alle famiglie è di non insistere a trattenere i loro figli – specie con disabilità intellettive e relazionali – per uno o più anni nell’ultimo anno della scuola dell’infanzia o della scuola primaria o secondaria di primo e secondo grado, con la sbagliata convinzione che così possano meglio crescere psicologicamente e intellettivamente per poter stare meglio con compagni più piccoli di loro e quindi erroneamente creduti più simili ai loro figli.
Questo è sbagliato, poiché per quanto si possano tenere più a lungo i figli nello stesso ordine di scuola, mai essi potranno raggiungere l’età evolutiva dei compagni, mentre involontariamente essi si trovano in difficoltà con compagni più piccoli che non comprendono i loro comportamenti incontrollati, specie in età puberale, cosa che crea spesso problemi affettivi e sessuali quando arrivano alla scuola media.
Un augurio, infine, che posso rivolgere alle famiglie è di avere servizi pubblici e privati convenzionati territoriali che le sostengano a gestire in modo sereno il progetto di vita dei loro figlioli, evitando di diventare schiavi degli stessi, sempre più gravate da un carico di caregiver insostenibile. L’inclusione è una scelta coraggiosa che però non può e deve gravare solo sulla famiglia, ma dev’essere condivisa culturalmente e politicamente dalla società».
In chiusura di questa intervista, mi permetto – in forza di un’antica e ben collaudata amicizia con Tillo Nocera – di raccontare un piccolo aneddoto.
Parecchi anni fa egli venne da noi in Liguria, per una conferenza sulle consuete tematiche che ci riguardano nella scuola: arrivò in treno-cuccetta al mattino, lo andai a prendere alla stazione (punto di incontro raccomandato “sotto l’orologio”, ma riuscii al prelevarlo “al volo” alla discesa del vagone). Brillante conferenza a Finale Ligure, poi delizioso pranzo con trenette al pesto, branzino con carciofi, pochi formaggi, un po’ di dolce e una o forse due bottiglie di Vermentino (ma eravamo in tre!). Poi il caffè.
Tillo espresse quindi il desiderio di visitare a Savona l’allora inaugurando Centro di Documentazione sull’Handicap e pertanto velocemente colà ci recammo. La visita fu breve perché nel pomeriggio era previsto un altro impegno a Loano. Niente cena per sveltire un po’ la decantazione intestinale del Vermentino, quindi due chiacchiere a casa mia, in attesa del treno delle 23.30 per Roma.
Pioveva leggermente e un’insolita nebbiolina avvolgeva ogni cosa all’arrivo del treno. Mentre io dormivo letteralmente in piedi, Tillo era vispissimo e seguiva per radio il resoconto dei lavori parlamentari. Scena finale da film: il treno si ferma (nella nebbia) con grande stridore, si apre sbattendo una porta, due grandissime braccia si protendono fuori del vagone (era un addetto erculeo?) e con un educatissimo «Buona sera, avvocato!», sollevano Tillo e l’inseparabile trolley e lo depongono delicatamente all’interno. Tillo mi saluta con la mano e io resto a domandarmi se dormivo o se ero sveglio!