Il 16 ottobre [2012, N.d.R.] il Censis ha presentato uno studio sui Bisogni ignorati delle persone con disabilità, reso ancora più interessante dal confronto dei dati italiani con quelli rilevati in altri quattro paesi dell’Unione Europea: Francia, Germania, Gran Bretagna e Spagna. Ne è emerso un quadro sconfortante. L’investimento del nostro Paese è abbondantemente al di sotto della media europea, con 438 euro di spesa pro capite contro 530 e la differenza si fa ancora più marcata se il confronto si fa non sulle medie, ma sui valori di ciascun Paese.
Dunque, 754 euro in Gran Bretagna, 703 in Germania, 547 in Francia. Solo la Spagna ha livelli inferiori ai nostri con 394 euro. Non una grande sorpresa per gli addetti ai lavori, tuttavia utile per riflettere, in un periodo storico che dai tagli lineari si è evoluto in spending review, quindi in Legge di Stabilità, producendo decreti svuotati di significato e non riforme di cui davvero ci sarebbe bisogno.
Ma tornando al circoscritto mondo della disabilità, un primo, grave, problema è la mancanza di dati omogenei, dunque pienamente confrontabili, tra i Paesi europei. Non una cosa da poco, se in Italia risulta esserci un 4,8% di disabili contro un 25% in Francia e se nel nostro Paese gli unici dati ufficiali disponibili sono quelli dell’Indagine Multiscopo che risalgono al 2004-2005, i quali, oltre ad essere obsoleti, sono anche basati sulla Classificazione OMS del 1980 (ICIDH), fortemente imperniata sul concetto di disabilità come menomazione e sul conseguente approccio medico. Negli altri Paesi le rilevazioni si fondano invece su strumenti più recenti, ispirati all’ICF [International Classification of Functioning, Disability and Health, N.d.R.], che tiene in considerazione le limitazioni effettivamente sperimentate alla partecipazione sociale e gli ostacoli incontrati nella vita quotidiana.
Il problema, dunque, è che al di là di come le persone con disabilità vengono “contate”, nei Paesi oggetto della ricerca, esse sono, appunto, persone e a loro si presta un’attenzione mutuata da un approccio marcatamente più sociale, impostato sui criteri di uguaglianza e pari opportunità.
Perché i disabili sono una componente della cittadinanza i cui bisogni sono esaminati affinché si possa predisporre una migliore integrazione e promozione sociale, più che una necessità di assistenza. Lo dimostrano ampiamente i dati sull’occupazione, pur nella disomogeneità dei valori disponibili. In Spagna e in Germania risulta occupato il 28% dei disabili in età attiva, che sale al 36% in Francia, al 50% in Gran Bretagna, dove peraltro non esiste un sistema “a quote” come in tutti gli altri Paesi: un lavoratore disabile per ogni azienda da 15 a 35 dipendenti in Italia; il 2% per le aziende con almeno 50 lavoratori in Spagna; il 6% nelle ditte con più di 20 dipendenti in Francia e il 5% in Germania.
Tuttavia, anche abbandonando le più eque concezioni fondate sui princìpi dell’integrazione e della massima partecipazione alla vita sociale, e restando ancorati ai capisaldi della semplice assistenza, come avviene in Italia, la situazione offerta dal nostro Paese non migliora. Innanzitutto, è da sottolineare la scarsissima disponibilità e sensibilità istituzionale. Delle 147 ASL (secondo i dati 2011 forniti dal Ministero della Salute) a cui il Censis ha chiesto di compilare il questionario, che ha reso disponibile sia in formato elettronico che cartaceo, per rilevare disponibilità e accessibilità dei servizi riabilitativi e socio-sanitari integrati, solo 35 hanno risposto. I dati, pur parziali, giunti dalle ASL più partecipative, hanno evidenziato grandi carenze, come nel caso dell’assistenza domiciliare integrata (ADI) con una media di 22 giorni di assistenza l’anno, e forti disparità tra Nord e Sud, sia nella quantità che nella qualità dei servizi disponibili, con una presenza davvero esigua per le soluzioni più innovative, come ad esempio la pet therapy [terapia con gli animali, N.d.R.] o la musicoterapia per i malati di Parkinson. Il risultato è un sovraccarico delle famiglie per l’assistenza tanto di disabili che di non autosufficienti (troppo spesso le due definizioni vengono confuse, mentre non sono sempre coincidenti, come ha rimarcato l’ex Ministro della Salute e attuale presidente del Comitato Scientifico della Fondazione Serono, Elio Guzzanti).
La famiglia, però, non ce la fa più, lo ha ricordato il commosso intervento di una madre, ormai anziana, con una figlia quarantenne gravemente disabile, seguita al CEM, il centro della Croce Rossa che sta entrando nel degrado perché «costa troppo e la CRI non lo vuole più». «Sono due anni che i ragazzi non vanno più in vacanza», ha spiegato. «Su questo possiamo dire “pazienza”, ma alcuni non si alzano più dal letto perché mancano gli operatori» e allora lì la pazienza non basta.
Il CEM è per loro il luogo della socialità oltre che dell’assistenza, «non so più a chi gridarlo», ha concluso la mamma, stringendo in pugno una lettera di denuncia e richiesta di aiuto pronta per il Presidente della Repubblica.
«Se il grido di questa madre giunge così in alto, vuol dire che non funziona il territorio», ha detto il presidente del Censis, Giuseppe De Rita. «Questi ragazzi meritano una battaglia», ha aggiunto. Una battaglia collettiva che piuttosto che scuotere, forse, qualche coscienza “in alto”, deve ingrossare le fila “in basso”, tra i cittadini. Deve andare oltre la “professionalizzazione” del volontariato, un’istituzione nobile, che non può però essere l’alibi, insieme alla famiglia, per la mancanza di risposte istituzionali.
Non dimentichiamo il Libro Bianco sul futuro del modello sociale in cui l’ex Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, Maurizio Sacconi, definisce «risarcitorio» e «assistenziale» il modello sociale italiano, parla di un «universalismo selettivo» e considera le reti di volontariato «un prezioso tessuto connettivo tra cittadino e strutture sociali e sanitarie, in grado di avvicinare i servizi primari alla persona soprattutto se anziana e fragile». Considerazioni riportate in primo piano dal presidente della Federazione delle Aziende Sanitarie e Ospedaliere, Giovanni Monchiero, che propugna l’intensificazione delle «reti di protezione d’iniziativa privata» (altrimenti detto volontariato), quale strumento necessario in «una società inevitabilmente più povera e parcellizzata».
Non è questa la soluzione, come non lo è il proseguire sulla strada fin qui intrapresa di una “sanitarizzazione” della vita: un modo per tranquillizzare le ansie dei cittadini con bisogni di salute e socio-assistenziali, molto costoso e per nulla efficace.
Se anche avessimo davanti a noi anni di super crescita, ha detto De Rita, siamo davvero convinti che questo sistema sia giusto? Siamo convinti di continuare sulla strada di un’assistenza ospedalo-centrica e di flussi cash (pensioni e prestazioni d’invalidità) piuttosto che di servizi? O non è forse il caso, e la giornata del 27 ottobre a difesa della sanità pubblica potrebbe rappresentare uno spartiacque, di uscire da schieramenti ideologici o corporativi per ripensare il sistema? [il riferimento al 27 ottobre riguarda la manifestazione nazionale “Diritto alla cura Diritto a curare”, svoltasi appunto a Roma il 27 ottobre 2012, N.d.R.].
Per cogliere “l’opportunità” della crisi, per innovare davvero, per quella riforma quater da alcuni evocata che ripensi il sistema in una logica di funzionalità prima che di spesa, perché il risparmio, semmai di risparmio ci fosse bisogno in una spesa pro capite tra le più basse in Europa, sarebbe la naturale conseguenza di un sistema efficiente, efficace e appropriato. Per far questo bisogna chiarire cosa intendiamo per sanità: un’istituzione che tutela la salute a partire dalla sua promozione, proseguendo con la prevenzione e infine, ma solo infine, giungendo alla cura e all’assistenza.
È un cammino tanto semplice quanto rivoluzionario rispetto al percorso seguito sino ad oggi che rimette al centro l’uomo, e si basa sulla consapevolezza della vulnerabilità del sistema sanitario così interdipendente dalle politiche non solo sanitarie, ma sociali, del lavoro ed educative, come dimostra un’eccellenza italiana, l’unica emersa nell’esame dell’offerta di cura e assistenza per le disabilità del Censis, ovvero l’integrazione dei ragazzi disabili nelle scuole di ogni ordine e grado. Un’ottima legge che rischia di essere l’ennesima teoria a cui è seguita una pessima pratica, ogni volta che parte una sforbiciata alle ore di sostegno per ciascuno studente, ogni giorno che si ritarda nell’assegnazione delle cattedre, ogni ennesimo docente privo di titolo specifico per il sostegno “parcheggiato” a fianco di un alunno disabile.
Scegliamo dunque questa data, il 27 ottobre [si veda sopra, N.d.R.], per combattere contro una sanità povera per i poveri, per farla uscire dagli ospedali e portarla nelle piazze, nelle scuole, nei quartieri, a fianco di chi deve stare: i cittadini tutti, senza distinzioni di abili e disabili, autosufficienti e non.
Scegliamo questa data per non dormire sonni tranquilli e come in uno dei monologhi di Quinto potere dire: «Io sono un essere umano, porca puttana, la mia vita ha un valore!».
Giornalista freelance dal 1991. Laureata in Scienze della Comunicazione, ha collaborato con la RAI, l’Istituto Luce, «Il Messaggero», l’«ADNKronos». Da alcuni anni si dedica ai temi della biopolitica e dei diritti umani, attraverso scritti, conferenze e docenze. Nel 2009 ha pubblicato il saggio-inchiesta La salute rubata. Il presente articolo, vincitore il 25 aprile scorso del Premio Nazionale Informazione per la Salute al Festival internazionale di Giornalismo di Perugia, era apparso il 21 ottobre 2012 in «Quotidiano Sanità», con il titolo “La manifestazione del 27 ottobre. Anch’io in piazza, perché sono un essere umano”.
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