È diventato ormai un personaggio carismatico, Sergio Anfossi, cinquantunenne di Fossano (Cuneo), fondatore e presidente dell’Associazione Polisportiva PASSO (Promozione Attività Sportiva Senza Ostacoli) di Cuneo, che numerosi importanti progetti ha realizzato in àmbito di sport delle persone con disabilità e che ancora ne continua a portare avanti. Tante sono state infatti le persone – soprattutto giovani, vittime come lui di incidenti – che ha avvicinato allo sport e oltre a impegnarsi in incontri di prevenzione nelle scuole, riguardanti la sicurezza stradale, Anfossi ha portato il tennis in carrozzina e l’handbike in Piemonte, quando ancora nessuno lo aveva fatto.
È un cammino travagliato, emozionante e pieno di sogni, quello della sua vita, che egli stesso incomincia a raccontare così: «Ero molto piccolo, quando i miei genitori decisero di separarsi e così io e mamma siamo tornati a vivere a Cussanio, frazione di Fossano (CN), in casa dei miei nonni materni. La mia non è stata un’infanzia facile; in quegli anni, infatti, la separazione di una coppia era vista come una sorta di “scandalo” e ne ho sofferto soprattutto per il dolore che aleggiava ogni giorno nel cuore di mia madre. Mi pesava la solitudine e l’isolamento e così in quegli anni ho maturato un carattere forte e determinato che – allora – non potevo certo immaginare quanto mi avrebbe poi aiutato a superare, nel corso della vita, un ostacolo grande come la disabilità.
Ho portato a termine gli studi, conseguendo il diploma di perito agrotecnico nell’80 e subito ho iniziato a lavorare in campo avicolo, come dipendente; è stato subito amore. Dalla voglia di essere imprenditore e di avere un’azienda agricola tutta mia, è nato il primo sogno: sviluppare un progetto nell’azienda dello zio, consistente in tre capannoni avicoli, capaci di sessantamila capi. Il progetto è decollato nel ’90, con il primo capannone, che sarebbe stato completato nel settembre del ’93, se non ci fosse stato l’incidente a rovinare e a interrompere quelle mie prime, modeste, ambizioni».
Com’è avvenuto l’incidente che ti ha reso paraplegico?
«È successo il 23 luglio del ’93, a un mese dal mio trentaduesimo compleanno. Ricordo quel tardo pomeriggio afoso come fosse stato ieri; mi sono calato in un silos di sette metri. Dovevo eseguire un lavoro al suo interno e al termine sono risalito con l’ausilio di una corda, ma appena messo fuori il capo e respirato aria meno pesante, sono svenuto. Le mie mani hanno lasciato la stretta che esercitavano sulla corda e così sono caduto giù a peso morto, inarcandomi nell’imbuto del silos, con relativo schiacciamento al bacino e l’esplosione della prima vertebra lombare, ciò che ha provocato il danno midollare e la conseguente paralisi degli arti inferiori».
Poi Sergio è tornato a “vivere”, nonostante la limitazione fisica e continuando ad inseguire i suoi innumerevoli sogni.
«Devo tornare indietro con la mente a vent’anni fa per ricordare che in ospedale a Cuneo ho sempre pensato di avere fatto un brutto sogno e che il giorno dopo mi sarei svegliato con tutto il mio corpo in funzione. Ma a Marsiglia, il professore che ha effettuato il mio secondo intervento è stato molto chiaro: paralisi permanente. In quel momento mi sono sentito crollare il mondo addosso. Ho passato sedici giorni difficili e molto dolorosi nel post-intervento. Ma all’arrivo nella clinica riabilitativa, non lontana dall’ospedale, qualcosa è cambiato. Lì ho capito infatti di essere stato in qualche modo “fortunato”, poiché ho conosciuto tanti ragazzi con lesioni molto più gravi della mia, con notevoli limitazioni e ho ringraziato il buon Dio per avermi lasciato ancora l’uso del mio tronco delle braccia e delle mani. Quello è stato l’”input” che mi ha fatto reagire positivamente, anche perché le strade erano solo due, o togliermi la vita o viverla; e ho scelto di viverla perché consapevole che la vita è un dono troppo prezioso per sprecarlo».
Anfossi ha incontrato nel suo nuovo “cammino” tanti ostacoli e tante barriere, quelle strutturali e quelle mentali, ma una dopo l’altra le ha superate. Per riprendere poi gran parte della sua autonomia, un importante passo lo ha fatto nel 2011, grazie a Genny, quella speciale e innovativa carrozzina ideata da Paolo Badano, che sfrutta un movimento ondulatorio e un sistema di equilibrio particolare.
«Con Genny sono tornato a passeggiare sul bagnasciuga, sulla spiaggia, sotto la pioggia, potendo tenere per mano una persona cara o anche tenere stretto in mano un ombrello, un buon gelato, oltreché poter fare la spesa spingendo il carrello e molte altre cose ancora».
Che rapporto hai con lo sport? E qual è il tuo legame con PASSO, la polisportiva senza ostacoli che hai fondato a Cuneo?
«Ho sempre amato lo sport, e prima dell’incidente praticavo sci, tennis, motocross e successivamente enduro. Dopo l’incidente, mi sono avvicinato a una palestra di Fossano, che in quegli anni era l’unica accessibile per una sedia a rotelle, iniziando a irrobustire i muscoli del tronco e delle braccia per acquisire più autonomia. Nel ’95, poi, ho saputo che altri ragazzi paraplegici si incontravano a Dronero (Cuneo) per giocare a basket. Sono andato a vedere per conoscerli e a giocare con loro e nel ’96, dopo avere conosciuto l’avvocato Mario Rosso, abbiamo deciso di formare e costituire un’associazione per lo sport. In quello stesso anno, quindi, è nata PASSO, la mia “creatura”, che mi ha sempre dato molto, dalla possibilità di praticare il tennis in sedia a rotelle fino ad approdare all’handbike. Non ne ero ancora Presidente, quando, nel 2005 – proprio per il mio forte desiderio di far conoscere e praticare lo sport senza ostacoli a quanti più ragazzi potevo – ho deciso di promuovere a Cussanio la prima gara di handbike. È stata un’emozione indescrivibile, sono riuscito infatti a raggruppare ben ventisette atleti, che hanno commosso tutti gli spettatori. La ricordo come la gara più bella, conclusa con una volata incredibile proprio sotto gli occhi del mio pubblico, parenti amici e conoscenti, mettendo dietro di me ciclisti ora di fama mondiale come Podestà, Cecchetto e il mio compagno di squadra Gianfranco Pigozzo, conquistando il secondo posto assoluto dietro allo svizzero Libanore.
È stata davvero una giornata memorabile, ho pianto cosi tanto nella notte, ma erano lacrime di gioia. I ricordi e le emozioni di quel 28 agosto sono ancora scolpiti nella mia mente e nel mio cuore. Adesso vado a cercare in ospedale i ragazzi paraplegici, soprattutto quando ne capita qualcuno della mia zona, e dico loro che quando escono devono per forza provare l’handbike oppure una carrozzina per il tennis. Che devono insomma rimettersi in pista e correre di nuovo… sul circuito della vita!».
Il presidente della Polisportiva PASSO è anche innamorato dell’Africa, di una parte del continente sahariano, che lui chiama “la mia Africa”. Ce la racconti, la “tua Africa”? Quando ci sei stato la prima volta e come è riuscita a catturarti?
«La passione per i viaggi nasce insieme a quella per i motori; già da piccolino, infatti, ero affascinato dalle auto e dalle moto e anche dalla mitica gara Parigi-Dakar. La seduzione di attraversare quelle immense distese di sabbia, solcare le dune, galleggiarci sopra e poterlo fare con la mia moto era un grande sogno che ho coltivato per tantissimi anni.
La vita, però, è bizzarra e imprevedibile. Il giorno dell’incidente nel silos, infatti, ero passato da un rivenditore di moto e avevo comprato l’Africa Twin 750 con “preparazione Parigi Dakar”, e pochi mesi dopo sarei dovuto partire per un viaggio con amici, per andare a esplorare le dune nel deserto del Marocco. Avevo inseguito quel sogno per anni e in quei giorni esso stava assumendo le sue forme. Proprio il giorno prima della frattura spinale, quindi, avevo vissuto una gioia e un’emozione indescrivibili, come quelle di un bambino quando riceve il regalo più desiderato. Ma è stato un piacere effimero, durato lo spazio di un pomeriggio. Ero naturalmente ignaro di ciò che sarebbe successo poche ore dopo e navigavo con la mia mente attraverso quei magici paesaggi in terra africana. Quel sogno infranto è stato la delusione e il dolore più grande che abbia vissuto, insieme alla perdita dell’uso delle gambe».
Il motto che contraddistingue l’atleta fossanese – “Non smettere di sognare” – a questo punto calza proprio a pennello. Infatti, Sergio, dopo l’incidente, ha continuato a sognare e nel ’98 gli si è presentata l’occasione di fare un viaggio in Marocco con il cugino Luca, un viaggio durato trentuno giorni, dove ha percorso ben 8.500 chilometri, raggiungendo Casablanca, Marrakech e poi giù al sud verso le porte del deserto, a Zagora. Mentre racconta questo, Sergio ha gli occhi lucidi…
«A Zagora ho potuto respirare quell’atmosfera magica e unica che solo una distesa di sabbia ci sa regalare; ero lì come nel nulla, avvolto da un silenzio surreale, con magici colori e le sfumature dell’alba e del tramonto, e ho vissuto momenti intensi ed emozionanti. Con mio cugino avevamo realizzato un bivacco tra le dune, poi sono sceso dall’auto, portando una borsa con l’abbigliamento da endurista; l’ho indossato sulla carrozzina e mi sono buttato a terra dalla mia sedia a rotelle. Con la sola forza delle braccia ho iniziato a scalare una duna e dopo circa 45 minuti ne ho raggiunto la vetta; è indescrivibile il sentimento vissuto in quel momento nel quale ho alzato le braccia al cielo e sono scoppiato in lacrime. Non comprendevo il sapore di quelle lacrime, erano forse di delusione, di tristezza e amarezza per non aver potuto sfidare quella sabbia con la mia moto, ma erano – soprattutto – lacrime di gioia e di felicità, per avere avuto ancora la possibilità di giungere su quella vetta anche senza l’uso delle gambe».
Mai smettere di sognare, dunque, mai smettere di coltivare un sogno, perché solo così, un giorno, quel sogno potrà trasformarsi in realtà. Ed è vero!
«Quel viaggio mi ha letteralmente rapito il cuore. Successivamente sono tornato in Africa nel ’99 in marzo e in ottobre. E poi ancora nell’estate del 2003, con due fuoristrada e sei amici, raggiungendo le spiagge bianche di Tan Tan, le montagne di Tafraut, dal deserto di Zagora a quello di Merzouga al confine con l’Algeria. Impossibile non innamorarsi di quel Paese pieno di colori, di paesaggi. Mi catturava il calore della gente entrando in quei villaggi sperduti, con i bambini che assaltavano le nostre auto per una penna, una maglietta, un biscotto e poi i loro sguardi, i loro sorrisi… Sono tutti ricordi stupendi e indelebili.
Dall’inverno tra il 2003 e il 2004, ho iniziato a trasferirmi in Marocco ed esattamente nella città di Agadir, per trascorrervi il periodo invernale, al caldo, dove potevo e posso effettuare la preparazione agonistica con l’handbike su strada e vivere così all’aperto».
E le donne? Quest’universo fantasmagorico… Lo sai che hai una fama di “latin lover”? Ma qualcuna è mai riuscita a prenderti il cuore a non essere più finalmente “solo un’amica”?
«Una bella domanda, ma la risposta è complessa, come complesso è l’universo femminile. Il rapporto che ho avuto con le donne prima del mio incidente penso sia stato quello che può essere la normalità di un rapporto a due. Alcuni anni dopo l’incidente, poi, ho sentito il desiderio di conoscere più a fondo questo “magico universo” e così è iniziata la mia “ricerca”. Cambiando alcuni parametri sulla mia vita, sono cambiati anche molti obiettivi, desideri, piaceri. Penso che vivere bene e sereni sia possibile, se si percorre la giusta strada.
Avere la fama di “latin lover”, ora che vivo sulla sedia a rotelle, è una cosa che mi lusinga e mi fa piacere. Ciò significa che un uomo, anche con una limitazione fisica, può continuare ad avere una vita relazionale piena, se sa come rapportarsi.
Una donna, la più importante, è entrata nella mia vita nel periodo più buio, ha saputo rubarmi il cuore e l’anima, mi ha dato un aiuto enorme per raggiungere la consapevolezza di poter essere in grado ancora di dare molto in un rapporto a due; mi ha fatto comprendere e credere ancora nelle mie forze, nella mia volontà, nella mia voglia di vivere, nella mia voglia di sognare. Purtroppo anche le cose più belle possono finire, ma questo per me non è importante, importanti sono le tante emozioni e le vibrazioni che si vivono solo amando e queste vanno scolpite dentro il cuore. Sono questi ricordi a farmi sorridere e a farmi raccogliere speranza nei momenti più difficili che si incontrano nel corso della vita.
Di certo il modo di vivere la mia vita e trascorrere cosi tanto tempo in terra marocchina non rende le cose facili quando si vive un rapporto, ma io sono “egoista” e di conseguenza miro principalmente ad avere il meglio per la mia vita, la salute, il morale e tutto questo so che lo posso trovare solo ad Agadir. Per amore di questa terra calda e aspra, ho rinunciato a vivere con un’altra persona un momento bello, nel quale mi sentivo gratificato solamente vedendola sorridere, felice, serena».
Ci parli del tuo grande impegno nell’organizzare gare di handbike internazionali e di portarle nella tua Fossano?
«Sogni, sempre sogni. Sono il pane della mia vita. Era un sogno avere una gara importante nella mia città. Ci sono riuscito nel 2005, con la prima gara di cui ho raccontato, modesta e semplice, organizzata a Cussanio. Poi ho curato maggiormente l’organizzazione e nel 2009 ho portato la partenza della gara proprio nel centro storico di Fossano, in occasione del Campionato Italiano Assoluto.
È stata dura, tante persone non erano d’accordo sulla mia scelta, ma io ci credevo tanto e l’ho spuntata, cosicché è stato un vero successo. Poi, negli ultimi anni, ho sempre portato a Fossano una tappa del Giro d’Italia di Handbike e nel 2012 un’altra scommessa: aggiudicarmi per la mia città una tappa del Circuito Europeo: quest’ultimo è stato un impegno organizzativo molto faticoso perché ero rientrato dal Marocco in aprile e ho perso parecchio tempo prezioso, per “correre dietro” alla mia salute, il dolore alla spalla, una piaga e un intervento di colecistectomia. La gara si correva in luglio ed ero sfinito e poco entusiasta, ma quell’appuntamento era troppo importante perché fallissi. Ho riesaminato quindi il percorso, portando il circuito tutto in città, ho fatto addobbare a festa dal Comune il centro storico, per accogliere i campioni provenienti da tutta l’Europa, per le due giornate di gara. E alla fine è stato un successo, con i complimenti di persone come Roberto Rancilio, presidente dell’EHC (Eueropean Handbike Circuit), dell’atleta organizzatore della tappa francese e dei partecipanti, che mi hanno del tutto gratificato e ripagato per le energie profuse. Una vittoria personale è stata anche la soddisfazione di aver portato il nome della PASSO nel mondo dell’handbike europeo.
Alla fine di quella manifestazione, il mio carico di stress e il dispendio di energie mi avevano letteralmente prosciugato. Sono rientrato a casa pieno di brividi, con quasi 40 di febbre per alcuni giorni, ma ne era valsa la pena! Quest’anno ripeterò lo stesso appuntamento, ma mi sento più tranquillo, perché i percorsi ormai sono collaudati e anche la sicurezza sulle strade non mi preoccuperà più come lo scorso anno».
Sogni e speranze per il futuro?
«La speranza più grande è quella che il mio dolore alla spalla – che ormai mi accompagna da un anno – mi dia un po’ di tregua e che possa godermi totalmente la mia nuova handbike Carbide dalle prestazioni eccellenti. Peccato non averla avuta negli anni passati, quando ero più in forma e più giovane.
I sogni? Ne ho sempre tantissimi che popolano la mente. Vorrei portare una gara di handbike in Africa, magari proprio una tappa dell’EHC nella città che mi ha adottato, Agadir. Sarebbe una bella opportunità di integrazione, socializzazione e riscatto per tante persone con disabilità dei Paesi in via di sviluppo».
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