Leggo sulla sanità – ma anche ascolto da troppo tempo e in vari consessi – il vuoto. Programmi di partito che dedicano alla sanità poche righe, proposte che si ripetono senza raggiungere un risultato, istituti, centri di studio e ricerca, associazioni, progetti che spuntano nuovi, ogni giorno, per proporre le stesse cose, alle stesse persone, con gli stessi risultati: il nulla. E allora mi chiedo: cos’altro dovrà accadere perché ci si renda conto che non è più il tempo per le chiacchiere, le divisioni, le inutili duplicazioni solo per fregiarci di un titolo, chessò, vedere stampato su un elegante biglietto da visita la parola “presidente”?
Che senso ha dire di avere a cuore il Servizio Sanitario Nazionale, che avrebbe bisogno della massima coesione di forze, limpidezza d’intenti, mentre si sta “lavorando” per realizzare l’ennesimo business alla faccia dell’etica, dell’equità, dell’universalismo? Che senso ha professarsi “di sinistra” quando il nostro lessico è infarcito di universalismo selettivo, pilastri, assicurazioni integrative? Che senso ha avere acquisito competenze che sarebbero preziose per la nobile causa della tutela della salute pubblica e lasciarsi invece andare a un’accettazione passiva dello status quo, di un potere fagocitante cariche, denaro e salute?
Forse il senso risiede in una volontà di obnubilare le coscienze, di appiattire la visuale, così da offrire un panorama uniforme dove non emergono differenze – dunque possibili vie d’uscita – a una situazione che viene data per scontata. Dopotutto, di ticket in ticket, di addizionale in addizionale, di imposta in imposta, le prestazioni del Servizio Sanitario Nazionale stanno diventando sempre meno competitive; quelle offerte dal settore privato, al contrario, guadagnano terreno. Nel Lazio, ad esempio, i costi del ticket per risonanze e TAC superano i 61 euro, 25 euro in più rispetto ad appena cinque anni fa, a cui si devono aggiungere i lunghi tempi di attesa.
Attenzione, il segnale di allarme è assordante, far finta di non sentirlo non potrà che incrementare quel già preoccupante dato dei nove milioni di italiani che hanno rinunciato alle cure per mancanza di denaro.
Non possiamo continuare a parlare di sanità in termini di numeri, costi, fabbisogni – più o meno standard – e non pronunciare mai il termine investimento. Economico, a volte; sociale, sempre. Lo si dimentica spesso, specie in quegli àmbiti politici preposti a delineare il cammino, presente e futuro, del nostro Paese, che la sanità è un potente regolatore sociale e un ottimo investimento. Anche in termini occupazionali.
Secondo l’AIES [Associazione Italiana di Economia Sanitaria, N.d.R.], ad esempio, per ogni milione di euro investito in sanità si generano 23 posti di lavoro, contro i 18 posti del tessile, i 14 della meccanica e i 7 del trasporto. L’aspetto, forse più tragico, è che la valenza sociale del nostro Servizio Sanitario sembrano ignorarla anche i cittadini, quando barattano dignità e diritti con la sudditanza, l’accettazione o l’assuefazione a pratiche delittuose che gravano sul sistema e sulle sue strutture.
«I diritti non nascono tutti in una volta. Nascono quando devono e possono nascere», scrisse Norberto Bobbio. Dunque, perdere la tutela del diritto alla salute (o proseguire nel suo progressivo svuotamento di significato) – giova ricordarlo – non significa che accorgendoci di avere sbagliato, l’indomani ripristineremo una stagione come quella che in uno stesso decennio consegnò alla storia lo Statuto dei Lavoratori, la Legge istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale e la Legge Basaglia.
«I diritti nascono quando possono nascere» e si perdono quando meno si devono perdere. Quando la parola crisi viene usata per generare paura – e la paura, si sa, produce immobilismo, chiusura, sospetto -, sappiamo che sulle nostre teste passeranno leggi e provvedimenti sempre più mortificanti i diritti umani. Sappiamo che ogni giorno perderemo un pezzo di dignità.
È questo che vogliamo? Oppure stiamo aspettando qualcuno che non si sa chi, non si sa quando, non si sa come, con la spada sguainata guiderà la nostra indignazione?
Sento attorno a me troppo silenzio, leggo troppe parole urlate per dare autorevolezza a un’assoluta mancanza di contenuti, vedo un incomprensibile immobilismo e tanta confusione. In un’epoca contrassegnata dalla facilità di comunicare, di avere informazioni, emerge il paradosso di una sempre più diffusa ignoranza delle problematiche e delle ripercussioni sociali di manovre e manovrine – alcune palesi, altre meno – di una scarsa consapevolezza, di un progressivo frastornamento, di uno svilimento di ciò che di moralmente nobile, eticamente significativo, è stato rappresentato dal nostro Paese.
Sento la necessità di dire che dobbiamo invertire questa tendenza suicida e poiché come Ricoeur [Paul Ricoeur, N.d.R.] «credo nell’efficacia della parola che insegna, credo nell’efficacia della parola che riprende riflessivamente i temi generatori di una civiltà in cammino», scrivo. E sogno. Sogno di vedere messa in pratica quella virtù civica che Hannah Arendt spiega con lo stare con le altre persone, non sopra, né accanto o, peggio, altrove. Sogno di vedere un’ideale catena umana che da Vipiteno a Capo Passero unisca il mio Paese sotto un unico slogan che è A.M.O.R.E. Non un movimento di ciccioliniana memoria, ma Amore, quale sinonimo di unione per antonomasia, e anche acronimo di Assistenza Medica Ospedaliera Residenziale (ma anche Riabilitativa) e d’Emergenza, ovvero la sintesi di ciò che offre il nostro Servizio Sanitario.
Quando? Nel mio sogno questa meravigliosa giornata si celebra il prossimo 23 dicembre, giorno in cui, trentacinque anni fa, vide la luce la Legge 833 di istituzione del Servizio Sanitario Nazionale. C’è tempo, sette mesi, per tradurre questo sogno in realtà, per creare un evento che accenda i riflettori su un problema, la sanità pubblica, che prima ancora di essere un diritto alla salute, alla cura e all’assistenza, è una questione di rispetto e di dignità della condizione umana, a prescindere da reddito, razza o religione. A prescindere da crisi sbandierate per intimorire, anziché come occasioni colte per cambiare.
«Ricordiamoci sempre che siamo il paese di Cesare Beccaria», ha detto il premier Enrico Letta nel suo discorso d’insediamento, e allora non dimentichiamoci della frase forse più celebre, del citato illuminista: «Non vi è libertà ogni qual volta le leggi permettono che in alcuni eventi l’uomo cessi di essere persona e diventi cosa».