Irene è una ragazza timida, e anche un po’ mascolina, pratica e autonoma. Viaggia assiduamente: si reca lì dove la chiamano, per aiutare a morire chi ne fa richiesta, e per questo è pagata profumatamente.
Fin dall’inizio – la prima scena è il “pugno nello stomaco” che comunica allo spettatore che assisterà allo s-volgersi di una pellicola quantomeno ruvida, difficile – Irene, che si fa chiamare “Miele” quando è in servizio, pare molto decisa e professionale, ma allo stesso tempo molto coinvolta, non distaccata quanto un simile “lavoro” o scelta di vita richiederebbero.
E quando entra in contatto con lei l’ingegner Grimaldi, che richiede il suo intervento per uccidersi, senza essere un malato terminale, ma fondamentalmente un depresso annoiato dalla vita (superba l’interpretazione di Carlo Cecchi), Irene entra in conflitto con se stessa e comincia a frequentarlo, oltre che per impedirne il suicidio, soprattutto per scavare dentro di sé.
Il suo percorso interiore non è che una gigantesca tela di ragno fatta di interrogativi che una splendida Jasmine Trinca pone anche allo spettatore incessantemente: è attraverso il suo sguardo sulle persone che scelgono di morire, sui parenti di queste, è attraverso il suo silenzio, che Irene tenta di avvicinarsi il più possibile alla morte, a ciò che può significare, a come essa si mostra un attimo prima di compiersi.
Irene non aiuta a morire la gente per sentirsi meglio con se stessa o semplicemente per alleviare chi soffre, facendone la propria ragione di vita: ella piuttosto – interiormente dotata di sensibilità e pudore molto accentuati – prova più che una vera e propria pietas, una grande tenerezza per la donna malata di cancro o per il ragazzo condannato a una vita a letto. E alla fine neanche questa basta più per continuare: Irene è lacerata e si chiede se davvero chi ha aiutato a morire lo volesse davvero.
Il grande interesse di Miele risiede nella mancanza di giudizio e presa di posizione verso il tema dell’eutanasia, e nella capacità di raccontare il percorso dell’anima di Irene, un percorso critico, con un buon uso del mezzo cinematografico. La macchina da presa addosso alla protagonista fa sì che lo spettatore partecipi alle angosce delle protagonista, l’originalità di molte inquadrature scomode, l’uso di suoni/musiche/rumori rendono l’esordio dell’attrice Valeria Golino alla regia apprezzabile, riuscito e di qualità.
La scena più affascinante: lo sguardo in macchina di Irene che lo spettatore difficilmente dimenticherà.
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