Marina Cometto, ovvero, si potrebbe dire, della tenacia! Marina è la mamma di Claudia, che ha compiuto da poco 40 anni e alla quale solo due anni fa è stata diagnostica la sindrome di Rett, dopo ben trentotto anni di indagini! Marina – e di riflesso quindi anche Claudia – è assai conosciuta nel mondo delle famiglie con disabilità. Ha fondato a Torino l’Associazione Claudia Bottigelli (Difesa dei diritti umani e aiuto alle famiglie con figli disabili gravissimi) ed è molto attiva in internet. Scrive infatti su numerosi portali ed è stata lei stessa “oggetto” di molti articoli. Recentemente, ad esempio, la giornalista Chiara Ludovisi ha vinto il Premio O.Ma.R. (Osservatorio Malattie Rare), con un articolo centrato proprio su Marina (titolo: Affrontato il tema del Piano Nazionale per le malattie Rare, attraverso la voce della mamma di una paziente con sindrome di Rett).
Non si può dunque parlare di famiglia con disabilità – come stiamo facendo da qualche settimana – senza parlare con lei, vera “decana”, per “anzianità sul campo”.
Com’è composta, Marina, la tua famiglia?
«Da papà, mamma e tre figli. Cristina di 43 anni, il sogno di maternità realizzato a vent’anni, seguita tre anni dopo da Claudia. Poi, dopo essere diventati una “famiglia disabile” e avere letteralmente riscritto e ricostruito la nostra vita “in compagnia” della disabilità, abbiamo avuto un “colpo di coda” e nella maturità abbiamo desiderato un altro figlio, raggiungendo il “numero perfetto” e senza mai pentirci della nostra decisione. Il figlio della maturità, infatti, dà una carica incredibile, che aiuta molto ad affrontare anche gli ostacoli che la quotidianità ci offre ogni giorno».
Figli “con” e figli “senza” disabilità. Quali i problemi e le soluzioni adottate nella tua famiglia?
«Forse il nostro piccolo segreto è stato rispettare lo spazio e le esigenze di tutti i nostri figli, di considerarli tutti insostituibili e importanti allo stesso modo, non dividendo l’amore tra loro, ma moltiplicandolo per ognuno di loro. Dove c’era il figlio in difficoltà, là c’era la mamma, sistemavo gli altri due e quello/a che viveva il momento critico poteva contare sulla presenza e su tutta l’attenzione della mamma, che nel nostro caso è stato il collante della famiglia. Non era la disabilità a fare la differenza, ma solo la valutazione di quali fossero le priorità nei determinati momenti».
Un tema a te molto caro è quello delle pari opportunità in sanità, con particolare riguardo nei confronti delle donne con disabilità: come e perché è cambiato negli anni – specie a Torino ove vivi – il rapporto con le istituzioni sanitarie, in generale e da parte tua? E qual è il tuo parere sulla Carta dei Diritti delle Persone con Disabilità in Ospedale, presentata recentemente a Roma e sull’esperienza del Progetto DAMA (Disabled Advanced Medical Assistance) all’Ospedale San Paolo di Milano?
«I problemi sanitari sono al primo posto nella mia classifica dei bisogni delle “famiglie disabili” e in tal senso non c’è nulla, nella nostra realtà piemontese, che sappia degnamente accogliere e prendersi cura delle persone con disabilità motorie e intellettive. La disabilità intellettiva è trascurata e penalizzata ovunque, sembra sempre che la persona con limiti cognitivi importanti sia un “cittadino di serie Z”. Per lui o per lei, tutto deve andare bene o bastare, le visite sono sempre solo “valutazioni nel limite del possibile”. Ma questo non lo accetto, la salute è importante per tutti, e pretendo visite, esami, interventi, con tutta l’attenzione possibile.
Credo ad esempio che mia figlia Claudia sia una delle poche persone con grave disabilità cognitiva, oltreché motoria, che sia stata sottoposta a colonscopia in anestesia, e le ho realmente salvato la vita con la mia insistenza… Spesso, purtroppo, il personale sanitario, a parte poche eccezioni, tende a minimizzare i sintomi ed ecco perché apprezzo molto la realtà del Progetto DAMA dell’Ospedale San Paolo di Milano, ove ho conosciuto il dottor Angelo Mantovani, grande uomo e grande medico, con l’aiuto del quale ho cercato di portare un’iniziativa analoga anche a Torino. E tuttavia non c’era allora – parliamo del 2004-2005 – e non c’è nemmeno oggi la volontà politica, organizzativa e soprattutto umana di offrire un’accoglienza sanitaria dedicata a questa tipologia di pazienti.
La Carta dei Diritti delle Persone con Disabilità in Ospedale è un documento da condividere assolutamente, ma se i vertici delle strutture sanitarie e ospedaliere ignorano persino la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, quali speranze possiamo avere per non dovere continuare ogni volta a istaurare “lotte intestine” per il rispetto dei diritti dovuti a ogni persona quando diventa un paziente da curare?».
Quindi mi sembra di capire che il personale sanitario da te “forzatamente” frequentato in tutti questi anni di battaglia non aveva affatto – e non ha – una preparazione specifica sufficiente ad affrontare il “problema Claudia”…
«Assolutamente no, il personale sanitario non ha la preparazione per affrontare il “problema Claudia” e nemmeno il problema di “tutte le Claudie” e questo perché nelle università viene insegnato ai futuri medici, e al personale sanitario in genere, a curare il paziente sano, che si trova in un momento di difficoltà. Nessuno, però, insegna loro a prendersi carico di persone con infinite altre difficoltà, difficoltà che fanno parte di loro stesse e che bisogna conglobare nel percorso sanitario assistenziale, per curare la malattia o la complicazione del momento. Ad esempio, abbiamo ancora troppi anestesisti che hanno il timore di prendersi responsabilità di assistere “malati a rischio”; abbiamo medici dentisti che preferiscono fare “piazza pulita” dei denti di persone con gravi disabilità cognitive perché così si limita di molto l’anestesia, per cui le cure odontoiatriche consistono spesso solo in estrazioni. Senza parlare poi di esami invasivi, molti dei quali mettono letteralmente a rischio la vita dei pazienti, per poca consapevolezza e conoscenza della disabilità e delle sue conseguenze.
Dovrebbe essere un àmbito della medicina affrontato con serietà e invece siamo spesso noi genitori che promuoviamo iniziative o azioni – di frequente criticate – per far comprendere come comportarsi con i pazienti non collaboranti. A Torino, presso l’Ospedale Sant’Anna, esiste dal 2007 un ambulatorio ginecologico per donne con disabilità, con lettino elettrico, sollevatore e medici che hanno imparato a conoscere e ad apprezzare le nostre figlie. Ebbene, questo ambulatorio è stato sollecitato da me e dalle difficoltà incontrate a fare i controlli ginecologici a Claudia. Possibile che mai nessun professionista si fosse posto il problema? Ignoranza, menefreghismo o indifferenza?».
Personalmente credo che per tutelare i diritti delle persone con disabilità di fronte alle ASL, spesso, purtroppo, l’unica via sia quella giudiziaria. Sei anche di tu di questo parere?
«Lo sono obbligatoriamente, visto che spesso, nonostante le richieste motivate e le necessità spiegate, ho trovato le porte chiuse da menti limitate, che non volevano neppure cercare di capire e comprendere… Quella era la norma scritta e ad essa ci si doveva attenere, senza alcuna elasticità mentale. Nessuna deroga, malati rari spesso non per patologia rara, ma perché pochi di numero, piccole unità spesso complesse che le leggi non prevedono e che perciò sono più invisibili di altre. In questi casi, solo il ricorso alla legge può dare risultati soddisfacenti. E, va detto, non è certo con piacere che molti di noi seguono questa strada, ma è un dovere verso i nostri figli, per far riconoscere i loro diritti di cittadini».
Un argomento un po’ triste, ma necessario, è quello del cosiddetto “dopo di noi”. Oggi ci sono interessanti esperimenti nelle due versioni: quella “esterna” (una piccola struttura creata o adattata appositamente per non troppe persone, diciamo dieci-dodici al massimo, con la possibilità per alcuni genitori di vivere all’interno di una struttura “aperta”, quindi non un ospizio o una Residenza Sanitaria Assistenziale) e quella “interna” (nella casa ove si è sempre vissuti). Però lo stato (perenne) di difficoltà finanziarie e la carenza di fantasia e buona volontà sembrano rendere le cose quasi impossibili. Che ne pensi?
«Io credo che debbano essere rispettate le scelte di tutti e in caso di disabilità intellettive, sono i genitori che devono farsi carico di questa ennesima difficile scelta. Mai, infatti, vorremmo lasciare i nostri figli alle mercè di questa società cieca e ottusa, ma visto che l’immortalità ancora non siamo riusciti a garantircela, prima o poi – come è giusto che vada la vita – lasceremo i nostri figli, affidandoli a mani altrui.
Cosa vorrei per mia figlia? La sorella vuole occuparsi di Claudia, quando non ci saremo più noi genitori, perché, dice, “non potrei vivere serena sapendo mia sorella ricoverata in una struttura, affidata a estranei, senza il nostro amore e senza la nostra presenza, che a lei fa così bene”. E allora il mio desiderio è che Claudia possa rimanere in casa sua, ma la sorella deve poter continuare a lavorare e a godersi la propria famiglia. Per questo lo Stato, “padre” e non “padrone”, deve provvedere al pagamento delle ore di assistenza durante l’assenza della sorella, per andare a lavorare e parliamo di almeno dieci ore di assistenza al giorno assicurata. Se teniamo conto che Claudia, ricoverata in una RSA [Residenza Sanitaria Assistenziale, N.d.R.], perché questa sarebbe la sua collocazione viste le grandi necessità sanitarie, costerebbe anche 300 euro al giorno, perché non spendere quel denaro per pagare l’assistenza al domicilio e offrire serenità a Claudia?
Poi certamente, per chi lo desidera, il ricovero in struttura o in comunità dev’essere preso in considerazione. Non ci può, insomma, essere una scelta “confezionata” e obbligatoriamente uguale per tutti. Siamo tutti singoli individui, abbiamo desideri, modi di affrontare la vita e speranze differenti; a tutti, però, dev’essere permesso di vivere dove meglio si crede e per chi non ha capacità di scelta, sono i genitori a dover scegliere per loro. Anche questo è un dovere dello Stato».
Marina e internet. Un impegno gravoso, una missione o un’àncora di salvezza?
«Beh, la Rete è tutto questo, anche se il primo approccio è stato sicuramente quello dell’àncora di salvezza. Condividere, conoscere e confrontarsi con persone che vivono la nostra stessa realtà è terapeutico e lo consiglio a tutti. Anzi, se avessi la possibilità economica di farlo, doterei tutti i genitori che iniziano la loro avventura con la disabilità di un computer e di una rete con cui connettersi.
Da qull’approccio iniziale è poi nata quella che ora vivo quasi come una “missione”, offrire cioè la mia esperienza per aiutare altri ad evitare tutti gli ostacoli che noi abbiamo dovuto affrontare per ignoranza, per disinformazione per stanchezza e dolore. Del resto credo che quarant’anni di esperienza di vita con la disabilità possano essere sicuramente ancora utili a qualcuno!
Certo, a volte l’impegno è anche gravoso e spesso mi lascio travolgere dai sentimenti, “immedesimandomi” troppo, soffrendo con questo o quel genitore. Altre volte, invece, ne condivido le gioie, riguardanti il piccolo successo di un bambino… Tutte cose, comunque, che mi hanno fatto crescere molto, come donna e come essere umano».