Attraverso la rete comunicativa delle nostre famiglie con disabilità, ci è giunta da Philadelphia la notizia della morte di Glenn Doman e per noi è un dovere rendere omaggio alla memoria di chi per primo credette nelle potenzialità dei nostri allora bambini con disabilità, omaggio che non dev’essere considerato come un elogio acritico all’impostazione metodologica della sua attività di riabilitatore, ma come tributo a chi individuò quelle che per noi restano le caratteristiche fondamentali della riabilitazione pediatrica: precoce, intensiva, olistica, domiciliare.
Dall’incontro delle nostre famiglie con disabilità a Philadelphia e a Fauglia (Pisa), nacque poi la Federazione Italiana ABC (Associazione Bambini Cerebrolesi) e anche di questo siamo grati a Glenn, che tuttavia non incoraggiò minimamente l’unirsi delle nostre esperienze.
Dopo decenni di forti critiche sull’“ascientificità” del cosiddetto “metodo Doman” (critiche, per il vero, provenienti assai più dai professionisti della riabilitazione che dalle famiglie) e alla negatività di certi suoi aspetti – dovuti soprattutto ad alcuni suoi maldestri epigoni -, oggi, passata la “moda” delle metodiche riabilitative dominanti, è possibile tracciare una serena visione d’insieme dei pregi e dei difetti di tale approccio riabilitativo. Innanzitutto quelli che vengono considerati i difetti:
– L’impegno eccessivo richiesto alla famiglia ancor più che al bambino con disabilità. In questa affermazione vi è indubbiamente del vero, anche se questo impegno viene preventivamente chiarito e si scoraggia chi non si ritiene in grado di mantenerlo. A nostro giudizio, l’impegno richiesto è sopportabile per l’amore dei genitori e per il tempo che i genitori stessi ritengono utile. Purtroppo, come in tutte le attività umane, esistono forzature inutili e perseveranze immotivate oltre ogni ragione.
– Il costo è indubbiamente elevato e non particolarmente ridotto dall’apertura – una ventina d’anni fa – di una “succursale” qui in Italia a Fauglia, in provincia di Pisa. Un costo, tuttavia, non troppo difforme da quello di altre metodiche riabilitative “private”, per non parlare dei costi richiesti dalle inefficaci (soprattutto per i “gravissimi”) proposte riabilitative “pubbliche”.
– L’ascientificità e la (presunta) condanna della classe medica. Le multiformi esperienze vissute delle nostre famiglie con disabilità negli ultimi vent’anni ci inducono a considerare che l’efficacia di tutte le proposte riabilitative dovrebbe essere valutata in base al beneficio globale che esse arrecano al bambino con disabilità e alla sua famiglia. Purtroppo, di regola, questo non avviene.
Per quanto poi concerne la (presunta) condanna della classe medica all’impostazione del “metodo Doman”, essa è stata soprattutto il frutto del responso negativo – storicamente datato – di una Società Americana di Pediatria, responso che riguardava alcuni aspetti particolari, come ad esempio l’utilità o la pericolosità della posizione prona nella prima infanzia. Sono stati evidenziati altresì aspetti psicologici negativi, sia nel bambino – che non vede tradursi in progressi (quando questo non accade) né i suoi sforzi né gli incitamenti continui dei genitori – sia nei genitori stessi, che possono ambire a traguardi riabilitativi spesso irreali e irraggiungibili. Noi riteniamo che questi ultimi rilievi siano attribuibili più a “forzature estremistiche” del “metodo”che al “metodo” stesso. In Italia, per altro, non mancarono professionisti che valutarono positivamente svariati aspetti di questa metodica, come ad esempio Cecilia Morosini, Marilena Pedrinazzi e Mario Cerioli.
– La mancata comprensione dell’importanza dell’integrazione scolastica. Ebbene, qui c’è del vero e ce n’è parecchio. Ma vi sono alcune valide motivazioni, derivanti da:
a) la scuola “americana”, soprattutto a livello elementare;
b) la mancata conoscenza di quella che verrà poi chiamata «integrazione scolastica di qualità»;
c) la constatazione reale che una scuola elementare non a misura di bambino con disabilità serve a poco (ma serve anche quella, se non lo respinge o lo isola!) e che non è prevalente sulle esigenze riabilitative “vitali”;
d) la presunzione – negata a parole, ma sottintesa nei fatti – che ogni danno sia riparabile o meglio che siano “riparabili” gli effetti di qualsiasi danno cerebrale. Qui il discorso è sottile e spinoso e non privo di connotazioni “commerciali” (il famoso “dio denaro”, motore di tanto progresso americano!). Attenendoci ai fatti documentabili, cioè in pratica alla nostra esperienza diretta, forse sarebbe più giusto enunciare: «Non esistono danni cerebrali (morte a parte) per i quali non sia possibile fare qualcosa di utile (pochissimo o molto, restando la valutazione soggettiva)». Questo è indubbiamente vero, come insegnano vecchie e nuove esperienze sul coma e sui cosiddetti stati vegetativi persistenti o sugli stati di minima coscienza.
E i pregi? Eccoli, come sempre a parer nostro:
– Il contatto continuo con la famiglia e il coinvolgimento dei genitori – e spesso non solo di loro – nell’attività riabilitativa. Da ciò derivano alcuni assiomi: a) nessuno conosce il bambino meglio dei genitori; b) nessuno ama il bambino più dei genitori; c) molte delle “scoperte” di Doman sono in realtà frutto dell’osservazione della sagacia dei genitori (come egli stesso ammetteva).
– Le quattro parole magiche, cioè come dovrebbe essere la riabilitazione pediatrica:
a) precoce, ovvero il più presto possibile, per sfruttare appieno la plasticità del cervello neonatale o comunque della prima infanzia. Giova qui rammentare che in Italia (all’epoca, ma sovente anche oggi), quel pochissimo che offriva il Servizio Sanitario Nazionale era tremendamente tardivo e generalmente del tutto inefficace per le disabilità gravi e gravissime. Se il caso non era proprio conclamato, i professionisti del Servizio Sanitario stesso dicevano «È troppo presto per una valutazione, tornate tra sei mesi», poi: «Diamogli ancora sei mesi di tempo per recuperare (spontaneamente!)» e quindi: «Sarà un semplice ritardo nell’accrescimento psicomotorio. Rivediamoci più avanti», sino al tragico e improvviso: «Signora, per suo figlio non c’è più niente da fare. Si deve rassegnare!». Oggi molti si sono ravveduti;
b) intensivo, ovvero il tempo è prezioso! Aumentando infatti – entro certi limiti – le stimolazioni sensoriali e le opportunità motorie, si forniscono al bambino con lesioni cerebrali le migliori possibilità di progresso in tempi ragionevoli. Improponibile, a tal proposito, il confronto con i quarantacinque minuti alla settimana, proposti dai professionisti nostrani, passati a (tentare) di giocare sul pavimento con quattro figure geometriche solide di legno colorato;
c) olistico: una parola, questa, che allora non era di moda, ma il suo significato per noi era chiarissimo: la metodologia riabilitativa comprendeva moltissimi aspetti e funzioni: fisiologiche, sensitive, motorie, intellettive, relazionali. Alcune tecniche o empirismi erano e sono geniali. Compendiando: la persona umana globalmente è assai più della somma delle sue funzionalità, considerazione apparentemente ignota a molti altri riabilitatori.
d) domiciliare, ovvero niente ricoveri in strutture, niente trattamenti ambulatoriali. A casa propria, dove il bambino vive naturalmente, nel suo ambiente elettivo. Cosa vi può essere di più semplice, di più vero, di migliore?
Grazie Glenn.
Glenn Doman
Laureatosi in Fisioterapia presso l’Università della Pennsylvania nel 1940, sviluppò insieme a Carl Delacato un approccio alla cura dei bambini con lesioni cerebrali, diventato poi noto come “metodo Doman”, quanto mai discusso da più parti, come ben si evince anche nel testo qui elaborato da Giorgio Genta. Con gli Istituti per lo Sviluppo del Potenziale Umano, fondati a Philadelphia, Doman fece conoscere le proprie idee e i propri metodi, formando i genitori ad applicarli.