La prestigiosa rivista scientifica «Immunity» ha pubblicato il 23 maggio scorso uno studio dell’Istituto Scientifico Eugenio Medea di Bosisio Parini (Lecco), realizzato in collaborazione con l’Università di Milano, l’Università di Milano Bicocca e l’Istituto Scientifico Don Gnocchi, in cui viene analizzata la storia evolutiva di molecole essenziali per la risposta alle infezioni.
Le cellule del sistema immunitario comunicano tra loro per coordinare una risposta efficace in caso di infezione. Tra queste, i linfociti T svolgono un ruolo essenziale e presentano molecole di superficie che regolano l’attivazione e l’estinzione della risposta. Tuttavia, tali molecole regolatorie possono anche contribuire allo sviluppo di malattie autoimmuni, come ad esempio il morbo di Crohn e la stessa sclerosi multipla.
Gli autori della ricerca di cui si parla hanno studiato 175 milioni di anni di storia evolutiva dei geni che codificano molecole regolatorie dei linfociti T, basandosi sul confronto delle sequenze di DNA di trentanove specie di mammiferi, analizzando la variabilità genetica delle principali popolazioni umane e confrontandola con il genoma di Neandertal. «I risultati – spiega Manuela Sironi, responsabile del gruppo di ricerca dell’Istituto Medea – hanno dimostrato che la selezione naturale ha modellato la diversità genetica di queste molecole nei mammiferi e che la pressione selettiva è stata esercitata da agenti infettivi. Si è cioè verificata una sorta di “corsa alle armi” in cui i patogeni e i loro ospiti (i mammiferi, in questo caso) hanno evoluto continuamente misure e contromisure atte rispettivamente a infettare o a difendersi dall’infezione».
Ad esempio, il virus che causa il sarcoma di Kaposi – tumore maligno che si riscontra prevalentemente nei pazienti affetti da HIV – esprime una proteina, la MIR2, in grado di silenziare la risposta immunitaria dell’ospite. La proteina virale interagisce con CD86, una delle molecole incluse nello studio e i risultati di questa ricerca hanno indicato che le regioni di CD86 coinvolte nell’interazione con MIR2 sono sottoposte a una forte pressione selettiva.
L’analisi della variabilità genetica in cinquantadue popolazioni umane ha poi confermato il ruolo degli agenti infettivi come determinanti della variabilità nei geni che codificano per le molecole regolatorie dei linfociti T. In particolare, gli autori hanno dimostrato che la frequenza di numerose varianti genetiche aumenta in aree geografiche dove è più alto il carico di agenti infettivi, indicando un adattamento a condizioni ambientali in cui le infezioni costituiscono una seria minaccia. Tra tali varianti, ve ne sono alcune che rappresentano fattori di rischio genetico per malattie autoimmuni, suggerendo che una parte del rischio di sviluppare queste patologie sia la conseguenza di una risposta immunitaria più efficace alle infezioni.
Infine, il confronto con il DNA dell’uomo di Neandertal ha fornito conferma a un’ipotesi sempre più accreditata: ovvero che vi sia stato un passaggio di materiale genetico tra la nostra specie e i Neandertaliani, flusso genico, questo, che avrebbe coinvolto geni di risposta alle infezioni.
«Nulla ha senso in biologia se non alla luce dell’evoluzione», scrisse il genetista Theodosius Dobzhansky e oggi si può dire che forse l’evoluzione possa anche spiegare il senso del nostro ammalarci. Sicuramente, possiamo oggi ripercorrere la storia dell’incontro con i nostri “peggiori nemici”, gli agenti infettivi, e identificare le impronte che hanno lasciato nel patrimonio genetico della nostra specie e le loro conseguenze.
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