Perché è sempre importante sensibilizzare sul tema della disabilità intellettiva e/o relazionale?
«Oggi il progresso scientifico permette di conoscere in anticipo, ad esempio, la diagnosi di sindrome di Down ed esistono anche diverse associazioni che supportano le famiglie nel fronteggiare i momenti difficili, relativi non soltanto alla sindrome in questione, ma a tutte le forme di disabilità intellettive e/o relazionali. E tuttavia, nonostante ciò, nelle persone permangono ancora molte paure e pregiudizi che nascono dalla non conoscenza delle disabilità di questo tipo. Sensibilizzare aiuta a difendere gli interessi delle famiglie, a informare l’opinione pubblica sui vari problemi e a eliminare pregiudizi e stereotipi».
Ma chi ha maggiormente bisogno di essere sensibilizzato?
«Innanzitutto le famiglie che si trovano impreparata ad accettare un figlio non sano, diverso da ciò che si era immaginato e atteso. Poi le figure sanitarie, che devono comunicare la diagnosi e pensare alla presa in carico per le cure mediche. Infine, gli altri operatori di servizi, che devono aiutare le famiglie a sviluppare percorsi di autonomia per i propri figli con disabilità».
In quale senso, per le persone con sindrome di Down, il diritto alla formazione, all’informazione e alla partecipazione attiva a tutti gli ambiti della vita troppo spesso non viene preso in considerazione? Cosa succede di solito e che tipo di “barriere” ci sono?
«Per le persone con sindrome di Down e in genere per tutte le persone con disabilità intellettiva e/o relazionale, spesso la formazione/informazione non va di pari passo con la crescita anagrafica, una problematica, questa, dovuta non solo a fattori intrinseci legati alla disabilità, ma anche alla mancanza di preparazione degli educatori nell’impartire le conoscenze, alla carenza di mezzi tecnici e di strutture adeguate, all’utilizzo di linguaggi, di grafiche e di formati non facili da comprendere e quindi inadatti alle capacità di quanti hanno una disabilità intellettiva e/o relazionale. A tutto ciò si può anche aggiungere la frequente eccessiva protezione da parte di quelle famiglie che considerare sempre come dei “bambini” le persone con disabilità intellettiva e/o relazionale.
Per cercare di eliminare le barriere alla formazione/informazione, l’ANFFAS Nazionale, ad esempio, a Pathways II, progetto promosso a livello europeo da Inclusion Europe [se ne legga ampiamente anche nel nostro giornale, N.d.R.], tramite il finanziamento del programma di apprendimento permanente della Commissione Europea, che vuole far conoscere il linguaggio facile da leggere e la formazione permanente per le persone con disabilità intellettiva e/o relazionale».
Cosa intendete esattamente con l’affermazione che per queste persone esistono ostacoli per l’accesso al mondo del lavoro “vero”? In quali settori lavorativi auspichereste una loro integrazione?
«Molto spesso l’accesso al mondo del lavoro è ostacolato perché si teme, erroneamente, che un impiegato con disabilità intellettiva e/o relazionale non abbia la redditività di una persona “normodotata” o che possa essere di intralcio qualora inserito in un contesto lavorativo.
La carenza di tutor con formazione adeguata, l’alta possibilità di avere un contesto lavorativo non capace di relazionarsi o di sostenere personale con disabilità intellettiva e/o relazionale in eventuali momenti di difficoltà, contribuisce a precludere l’accesso al mondo del lavoro. Spesso, inoltre, per molti datori di lavoro, l’inserimento della persona con disabilità viene vissuto come una sorta di imposizione per l’azienda.
Oggi, i settori in cui i ragazzi con sindrome di Down, ad esempio, e più in generale le persone con disabilità intellettiva e/o relazionale, vengono maggiormente impiegati sono l’artigianato (ceramica, falegnameria, cucina ecc.): la sfida sarà quella di collocarli in settori in cui si richiedono maggiori responsabilità».
Quali sono oggi, in generale, gli obiettivi di un’Associazione come l’ANFFAS?
«I princìpi di non discriminazione, le pari opportunità, l’inclusione sociale e la tutela della salute sono le fondamenta stesse del “pensiero ANFFAS” e lo sviluppo di un moderno sistema di welfare, che non lasci mai soli i singoli soggetti e le famiglie, rientra a pieno titolo tra gli impegni della nostra Associazione. Vorremmo che i princìpi di pari opportunità e inclusione potessero diventare pratica politica: le persone con disabilità, infatti, portano il peso di un’ingiusta discriminazione, soprattutto in tappe salienti nella vita di ogni individuo (formazione, accesso e collocamento al lavoro) e ancora troppo spesso ci si trova sull’accidentato terreno dei diritti negati o dimezzati.
Proprio in questi ultimi tempi, poi, l’ANFFAS ha intrapreso il delicato cammino che porterà a una nuova proiezione del pensiero associativo. Vogliamo infatti essere un’Associazione che pone in primo piano il protagonismo delle persone con disabilita e non più un’associazione “famiglio-centrica”, così da rendere pienamente e concretamente protagoniste della vita associativa le stesse persone con disabilità.
Protagonismo e centralità delle persone con disabilità, ascolto e dialogo saranno quindi gli obiettivi della nuova visione».
Cosa cambiereste nella legislazione attualmente vigente per il conseguimento di tali obiettivi?
«Restando alla Sicilia, la frammentarietà e la discrezionalità nell’interpretazione delle discipline che regolamento diritti e servizi, rendono sicuramente macchinoso il sistema di welfare nella nostra Regione. Tuttavia nell’Isola esistono buoni provvedimenti in materia di disabilità, come ad esempio il Piano Triennale a favore delle Persone con Disabilità, definito tramite un Decreto del Presidente della Regione, nel gennaio del 2006, le Linee Guida Regionali per l’accesso e il governo delle cure domiciliari (2010), l’adozione della Scheda di Valutazione Multidimensionale delle persone con disabilità, con i suoi pregi e difetti (2011), il Piano della Riabilitazione (2012), il Piano della Salute 2011/2013.
Le difficoltà maggiori si registrano sul piano dell’esigibilità dei diritti e delle prestazioni, che nella maggioranza dei casi vengono legati ai vicoli di bilancio».
Cosa bisognerebbe fare, dunque, per favorire l’integrazione sociale delle persone affette da sindrome di Down o da altre forme di disabilità intellettiva e/o relazionale?
«Per supportare non solo le persone con sindrome di Down ma tutte le persone con una disabilità intellettiva e/o relazionale, sarebbe necessario in primo luogo fornire un maggiore sostegno alla famiglia (psicologico, educativo, economico e sociale), soprattutto quando il figlio con disabilità è ancora piccolo. Sarebbe inoltre importante rafforzare gli strumenti di partecipazione, migliorare l’organizzazione dei servizi e la formazione e responsabilità dei professionisti, trovare una giusta allocazione della spesa, costruire alleanze fra Istituzioni e Forze Sociali».
Quante sono le persone affette da queste forme di disabilità in Sicilia?
«Non abbiamo dati certi per la nostra Regione. Ricordiamo, inoltre, che a livello nazionale non si hanno dati sulla situazione dei bambini con disabilità in età da 0 a 5 anni perché i minori iniziano ad essere censiti con l’ingresso nella scuola primaria».
Rispetto al resto d’Italia, esistono difficoltà maggiori per chi vive in Sicilia?
«Sì, per la carenza di strutture, per i ridotti finanziamenti e per la carenza di formazione delle persone nella presa in carico delle persone con sindrome di Down e di tutte le persone con disabilità intellettiva e/o relazionale».