È sicuramente di grande interesse l’Ordinanza prodotta il 26 marzo scorso dal Giudice Unico del Lavoro Giuseppe Giordano, del Tribunale di Avezzano (l’Aquila), che potrà senz’altro costituire un utile precedente per altre persone con disabilità. Il provvedimento ha chiuso una causa civile riguardante una discriminazione sul posto di lavoro, subita appunto da una persona con disabilità, sia per la mancata concessione dei permessi, come da Legge 104/92 (articolo 33), sia per la turnistica che per le barriere architettoniche.
A conclusione, quindi, del procedimento sommario, il Giudice del Tribunale di Avezzano ha ritenuto sussistente la discriminazione, anche se unicamente per la presenza delle barriere architettoniche, condannando pertanto al risarcimento del danno l’Azienda Sanitaria, ex datrice di lavoro della persona che aveva avviato l’azione giudiziaria.
Per approfondire la questione, cediamo ben volentieri la parola all’avvocato Alessandro Del Borrello del Foro di Vasto (Chieti), che ha patrocinato la causa civile.
Il caso portato all’attenzione del Tribunale di Avezzano (Giudice Unico del Lavoro dottor Giuseppe. Giordano), ha riguardato un lavoratore con disabilità che – dopo essersi rivolto all’Associazione Horizon di Vasto (Chieti), legittimata ad agire per la tutela giudiziaria delle persone con disabilità – ha avviato un’azione giudiziaria contro il proprio datore di lavoro ritenendosi vittima di discriminazione sul posto di lavoro.
Il Tribunale adito, richiamando il disposto di cui all’articolo 63 del Decreto Legislativo 81/08 [“Attuazione dell’articolo 1 della legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro”, N.d.R.], con l’Ordinanza del 26 marzo scorso, ha sancito due importanti princìpi.
Il primo riguarda l’obbligo del datore di lavoro di adottare misure idonee a garantire al lavoratore con disabilità la mobilità all’interno della postazione lavorativa. In caso di inadempienza, il datore sarà tenuto a risarcire il danno non patrimoniale, da liquidarsi in via equitativa, «insito nella lesione della dignità del lavoratore disabile che a causa della limitazione di movimento dovuta alla presenza di barriere architettoniche avverte un senso di frustrazione sentendosi discriminato rispetto agli altri lavoratori» (nella fattispecie si trattava di sedie e scrivanie che ostacolavano l’accesso del lavoratore alla sua postazione di lavoro, situata in un locale di ridotte dimensioni).
Il secondo attiene alla circostanza che, allorquando si è in presenza di una «situazione accertata oggettivamente idonea a creare disagio nel lavoratore che, a causa della propria disabilità e della presenza di ostacoli ingombranti, non possa muoversi liberamente», non rileva il fatto che il lavoratore non si lamenti delle difficoltà incontrate negli spostamenti all’interno del luogo di lavoro.
A parere di chi scrive tale ultimo principio può collegarsi con il consolidato orientamento giurisprudenziale in tema di valore giuridico del silenzio. Secondo la giurisprudenza, infatti, «il silenzio non ha alcun valore giuridico nell’ordinamento, se non quando per legge o per contratto sia previsto che debba darsi al medesimo un significato determinato» (tra i tanti: Tribunale di Milano, 10 agosto 2007); e «anche nel rapporto di lavoro il silenzio del lavoratore in sé considerato […] non può valere come consenso, stante la sua intrinseca equivocità» (tra i tanti: Cassazione Civile, Sezione Lavoro, n. 8235/99; e si veda anche Cassazione Civile, Sezione Lavoro, n. 5437/2011 e Cassazione Civile, n. 21018/12).
Anzi, nell’àmbito del diritto del lavoro, la Suprema Corte ha sancito che «il silenzio, nei casi in cui esso è da equiparare ad una manifestazione tacita di volontà, non può essere valutato in materia di contratto di lavoro col medesimo metro che vale ad attribuirgli gli stessi effetti del comportamento adesivo negli altri contratti, a causa dello stato di soggezione economica del lavoratore nei confronti del datore di lavoro, che impedisce di attribuire al silenzio del primo il significato di accettazione delle condizioni impostegli unilateralmente dall’altra parte» (tra i tanti: Cassazione Civile, n. 2995/77).
Dunque, il datore di lavoro deve provvedere ad abbattere tutte le barriere architettoniche eventualmente presenti nei luoghi di lavoro, anche, ad esempio, assicurando spazi adeguati tra i mobili e tra questi e le componenti edilizie, per consentire al lavoratore con disabilità il passaggio e la libera e agevole mobilità, soprattutto se si serve di sedia a rotelle.
Del resto, pure con la Circolare del Ministero del Lavoro e Previdenza Sociale n. 102 del 7 agosto 1995, si è chiarito che, nei luoghi di lavoro, l’adeguamento alle norme sulle barriere architettoniche è obbligatorio anche ai sensi del Decreto Legislativo 626/94 (ora divenuto il già citato Decreto legislativo 81/08).
Guardando poi al documento dell’Agenzia Europea per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro, intitolato Garantire la salute e la sicurezza per i lavoratori disabili, vi si evidenzia che «il processo di fornitura delle misure per i lavoratori disabili deve essere coordinato con tutti gli aspetti della gestione della sicurezza, in particolare con la valutazione del rischio […] affinché i dipendenti assolvano le loro mansioni secondo la legislazione sulla salute e la sicurezza e quella contro la discriminazione. Gli orientamenti volti contro la discriminazione devono essere presi in considerazione in tutte le fasi del processo di gestione del rischio, affinché gli ambienti di lavoro, le attrezzature di lavoro e la sua organizzazione siano modificati o adattati ove necessario per far sì che vengano eliminati, o almeno ridotti, i rischi e la discriminazione».
Nell’ottica di una corretta prevenzione, si è dunque affermato il seguente principio-guida della prevenzione: «Adattare il lavoro al lavoratore e non viceversa» (si confronti anche, in merito a tale principio, l’articolo 6, comma 2, lettera d della Direttiva 89/391/CEE, prodotta dal Consiglio d’Europa il 12 giugno 1989).
In tale contesto, infine, assume rilevanza anche la Circolare del Ministero dell’Interno 4/02 (Linee guida per la valutazione della sicurezza antincendio nei luoghi di lavoro ove siano presenti persone disabili), nella quale si sono voluti evidenziare gli elementi strutturali, impiantistici e gestionali che devono essere considerati in funzione di una possibile situazione di emergenza in un luogo di lavoro dove risultino presenti persone con difficoltà di mobilità e/o di orientamento e/o percezione, anche al fine di «conseguire adeguati standard di sicurezza per tutti senza determinare alcuna forma di discriminazione tra i lavoratori».
In definitiva, va necessariamente rispettata, pure nei luoghi di lavoro, la normativa in materia di abbattimento delle barriere architettoniche e i criteri di progettazione devono essere orientati a rendere l’ambiente di lavoro sicuro e fruibile per tutti (concetto di Universal Design, connesso a quello di Inclusive Design o Design for All), al fine non solo di una generale salvaguardia della personalità e dei diritti delle persone con disabilità – che trovano base costituzionale nella garanzia della dignità della persona e del fondamentale diritto all’uguaglianza, alla salute, alla libertà, all’autonomia e alla piena integrazione nella famiglia, nella scuola, nel lavoro e nella società – ma pure per avere un piano di emergenza unico che non sia discriminante.
In dottrina – sulla base dell’attuale quadro normativo comunitario e nazionale (in particolare si veda l’articolo 4 della Costituzione: «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società») -, è stato correttamente affermato che «il diritto al lavoro, come diritto della persona sociale, possa essere inteso anche nel risvolto del diritto ad esplicare serenamente la propria attività lavorativa al riparo, pertanto, da eventuali atti discriminatori volti anche a violare la dignità della persona. In tal modo, si getta un ponte tra il precetto costituzionale in esame e l’art. 41, secondo comma, della stessa Costituzione, laddove, infatti, si prescrive che l’iniziativa economica privata non può svolgersi in modo da recare danno “alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. Così inteso il disposto costituzionale, possiamo includere, nel suo ambito di protezione, la tutela, in senso ampio, delle condizioni di lavoro del lavoratore, secondo la comprensiva e felice rubrica dell’articolo 2087 c.c. [del Codice Civile, N.d.R.], nel quale costituisce oggetto del sinallagma contrattuale la protezione dei beni dell’integrità psicofisica e della personalità morale del prestatore di lavoro. […] Una tecnica di tutela dei diritti dei lavoratori particolarmente efficace può trarsi dalla corposa legislazione antidiscriminatoria, laddove, qui, dinanzi all’esercizio del potere del datore di lavoro volto ad adottare comportamenti discriminatori (in base al sesso, razza, origine etica, nazionalità, orientamento sessuale ecc.) si prefigura un provvedimento giudiziale diretto alla cessazione del comportamento illegittimo e alla sua rimozione (v. art. 4 d. lgs. n. 215/2003 e art. 4 d. lgs, n. 216/2003; art. 37 d. lgs. n. 198/2006) rispetto al quale il risarcimento del danno (anche non patrimoniale) costituisce solo un elemento aggiuntivo (se richiesto dal lavoratore)» (Pietro Lambertucci, Il diritto al lavoro tra principi costituzionali e discipline di tutela: brevi appunti, in «Rivista italiana di diritto del lavoro», anno 2010, fascicolo 1, pp. 91-120).