Vivere di suoni e piano piano perderli. Era il primo violino di spalla alla Scala di Milano. «Dicevo ai miei allievi: il primo strumento per un musicista d’orchestra è l’orecchio, per ascoltare non solo se stessi, ma gli altri». E lui quello strumento lo stava perdendo. Da un orecchio fuggì via. Quell’orecchio con il quale sentiva gli altri strumenti, il suono armonioso dell’orchestra che usciva dalle sue e delle loro note. «L’udito si spense dall’orecchio destro, quello dal quale arrivano i suoni degli altri. Il sinistro, la parte dove appoggio sulla spalla il violino, ascolta il mio».
Giulio Franzetti, diciotto anni con Claudio Abbado e altri dieci con Riccardo Muti, a suonare nel teatro più prestigioso del mondo, ha vissuto quella che per un musicista è una delle “grandi paure”. «Mi sentivo meno prestante, non più in grado di reggere quello che stavo facendo». Con la paura anche di parlarne. «Inizialmente non lo dissi. Iniziò a calarmi l’udito prima dei sessant’anni e per qualche anno, quattro o cinque, cercai di tenerlo nascosto. Per un musicista l’orecchio è la prima cosa. Avevo timore ad aprirmi agli altri».
Un giorno ne chiacchierò con Muti. «Mi fece capire di tenere la cosa per me, non parlarne. Io pensai: no, conta quello che faccio». Si rivolse a uno specialista, il professor Antonio Cesarani, responsabile di Audiologia al Policlinico di Milano, e poi si affidò a esperti tecnici di apparecchi acustici. «Affrontai i “fantasmi”. Questo è importante. Il “fantasma” sembra inafferrabile. Invece si prende e ci sono molte probabilità di strozzarlo».
Sono passati più di due decenni da quei momenti, da quelle paure. Pensava di perdere tutto, andò avanti quasi vent’anni a fare il suo lavoro, oltreché a insegnare, come fa ancora un po’, oggi che il maestro Franzetti si avvia a compiere 83 anni il prossimo autunno. «Conta quello che faccio. Fu così. Superai qualche diffidenza, meno, però, di quante si potrebbe immaginare».
Facile pensare a Beethoven, il più grande di tutti i tempi, divenuto sordo e capace ancora di opere straordinarie come la Nona Sinfonia. «Beethoven – dice Franzetti – leggeva la musica e sentiva i suoni nella testa». Ma il suo violino doveva integrarsi con altri strumenti, ad altissimo livello, senza errori permessi: «Il suono è una cosa straordinaria, esiste e non esiste. Con uno Stradivari si suona una corda vuota ed è già una cosa artistica. Quando capii di non sentire dall’orecchio che mi dava il contatto con gli altri strumenti fu uno shock, ma mi si aprì una finestra grandissima. Ho affrontato quel che ci vedevo. E ho vinto».
La storia e le sensazioni di Giulio Franzetti sono raccontate attraverso la sua voce in Sento l’aria, film-documentario di Mirko Locatelli, presentato nei giorni scorsi a Milano [se ne legga anche nel nostro giornale, N.d.R.], che ha intersecato le storie di tre persone, ognuna delle quali ha vissuto a modo suo i problemi legati alla disabilità uditiva.
Nel lavoro di Locatelli, insieme alla storia di Franzetti, ci sono quelle di Maria Cristina, neolaureata in Economia Aziendale e di Franco, professionista nel mondo della comunicazione. Tre persone che hanno vinto la paura a mostrarsi, in quella è che la disabilità invisibile della mancanza di suoni.
Il presente testo è stato pubblicato da “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it», con il titolo “‘Sento l’aria’. Quando il primo violino della Scala perse i suoni” e viene qui riproposto – con alcuni riadattamenti al diverso contenitore – per gentile concessione.
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