Già distintasi all’inizio del 2008, per avere ratificato tra i primi Paesi al mondo la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità e il Protocollo Opzionale di quest’ultima, ora – come abbiamo riferito nel maggio scorso – la Repubblica di San Marino risulta anche il primo Stato al mondo il cui Comitato Nazionale di Bioetica abbia prodotto un documento denominato L’approccio bioetico alle persone con disabilità, frutto di un gruppo di lavoro al quale tra l’altro ha collaborato anche, come esperto esterno, Giampiero Griffo, membro del Consiglio Mondiale di DPI (Disabled People’s International), uno dei “padri italiani” della Convenzione ONU.
L’importante testo si compone di una premessa, di nove capitoli, di un glossario con bibliografia e di alcuni allegati, caratterizzandosi per l’esplicitazione e l’esemplificazione dei princìpi della Convenzione ONU, attraverso l’analisi di casi concreti di violazione dei diritti umani delle persone con disabilità, spaziando su temi come i test prenatali e la consulenza genetica, l’eutanasia, i nati prematuri, il consenso informato, il rispetto della vita privata e della sessualità, la qualità della vita e molto altro ancora, tutte questioni certamente valutabili sotto l’aspetto della bioetica.
Presentiamo oggi una nostra intervista esclusiva con Luisa Maria Borgia, vicepresidente del Comitato Sammarinese di Bioetica e coordinatrice del gruppo di lavoro che ha elaborato il documento.
Professoressa Borgia, può innanzitutto spiegarci perché finora la riflessione bioetica sia stata praticamente assente, rispetto alle tematiche riguardanti la disabilità?
«Vi è un insieme di fattori che hanno reso difficile un’organica riflessione bioetica su questa tematica. Innanzitutto la complessità oggettiva di questo argomento. La disabilità ha una molteplicità di forme (fisica, sensoriale, mentale, comportamentale…), alcune delle quali possono essere difficilmente identificate in maniera netta o possono sovrapporsi. Ciò non ha favorito l’identificazione dell’oggetto stesso su cui indirizzare una considerazione bioetica, tanto più che – fino alla emanazione della Convenzione ONU – non esisteva neppure una unanime e condivisa definizione della disabilità, da sempre soggetta ai continui mutamenti linguistici, espressione della diversa concezione sulla disabilità nel corso dei secoli (dagli antichi termini profondamente dispregiativi, come “storpio”, “invalido”, “handicappato”, si è passati al “diversamente abile” e così via).
Inoltre, abbiamo dovuto aspettare secoli perché la disabilità non fosse più considerata un “tabù” associato a situazioni oscure e irrazionali ed è solo da pochi decenni che le stesse persone con disabilità hanno acquisito la consapevolezza della propria dignità in quanto persone e hanno dato vita a movimenti e associazioni che hanno portato il tema della disabilità nel pubblico dibattito.
Infine, l’approccio alla disabilità è sempre stato riferito a un modello medico o assistenziale, identificando la persona con disabilità come un “malato” che doveva essere riabilitato, curato, guarito o assistito. Tutta questa complessità di elementi ha ostacolato un approccio bioetico alla disabilità».
La Repubblica di San Marino è stato uno dei primi Paesi al mondo, nel 2008, a ratificare la Convenzione ONU, fatto non certo trascurabile e che può far pensare ad essa come a un “esempio-simbolo”, considerando anche che molti Stati mancano tuttora all’appello. Ma in quale contesto si muove il Comitato Sammarinese di Bioetica, rispetto alle azioni attuate nella piccola Repubblica del Titano, sui diritti, le leggi, i contributi e le attività di volontariato?
«Nella Repubblica di S. Marino, che conta poco più di 30.000 abitanti, le persone con disabilità sono in percentuale lo 0,3-0,6 per cento (i dati sono riportati nell’allegato al documento da noi prodotto), a fronte dei quali si registra la presenza di ben dodici associazioni di volontariato che si occupano di disabilità e che confluiscono nella Consulta delle Associazioni e delle Cooperative Culturali di San Marino, con un’Associazione Sportiva e Culturale Disabili (Attiva-mente), che include il Comitato Paralimpico Sammarinese e una Federazione Sammarinese Sport Speciali, che aderisce al Comitato Olimpico Nazionale Sammarinese.
Un grande fermento sociale, quindi, rispetto al quale la normativa sammarinese ha tutelato i diritti delle persone con disabilità con diverse leggi a partire dagli Anni Novanta (anche queste norme sono tutte riportate nel dettaglio di un allegato al documento). Ed è su tale humus che si colloca la firma e la ratifica della Convenzione ONU, come naturale tappa di questo processo di attenzione alle persone con disabilità».
Da cosa è scaturita la decisione di emanare questo documento sulla bioetica, oltre naturalmente alla spinta della Convenzione ONU?
«Nell’ultimo decennio si sono susseguite le prese di posizione di associazioni di persone con disabilità (ad esempio da parte di DPI-Disabled Peoples’ International, dell’EDF-European Disability Forum o della Federazione Internazionale della Spina Bifida), sui rischi di violazione dei diritti umani nel campo delle biomedicine. Tali denunce hanno messo in moto un’attività intensa in Italia, Spagna, Regno Unito, Francia, Canada – una vera e propria rete internazionale – che ha interloquito con le Istituzioni nazionali e internazionali competenti in materie bioetiche.
Anche l’attuale crisi economica ha fatto riemergere vecchie visioni stigmatizzanti, che riducono i fondi per l’inclusione sociale per le persone discriminate e senza uguaglianza di opportunità. Questo ha creato la consapevolezza che non fosse più accettabile una “latitanza” degli organismi bioetici su tale argomento, in particolare da parte dei numerosi Comitati Nazionali per la Bioetica.
A ciò si aggiunga la felice circostanza che alcuni componenti del nostro Comitato, come la sottoscritta, e alcuni consulenti di esso, come il dottor Giampiero Griffo, lavorassero da decenni su questo tema in àmbito universitario, con una specifica competenza bioetica. La sensibilità di tutti i componenti del Comitato ha poi permesso di accogliere tale proposta, nella consapevolezza che potesse essere proprio il Comitato Nazionale più giovane del mondo a intraprendere una riflessione nuova, seppur ricca di complessità, in àmbito internazionale».
Nel documento si legge che «la riflessione bioetica sulla disabilità può contribuire a rimuovere stereotipi culturali negativi». Il grosso ostacolo da superare, infatti, per mettere in atto i princìpi fondamentali della Convenzione, è proprio l’approccio culturale. Si parla cioè di diritti, di integrazione, di abbattimento delle barriere architettoniche e di pari opportunità, anche lavorative, ma troppo spesso, di fatto, ciò non viene messo in pratica, a causa di una mentalità e di una cultura poco evolute che ancora si basano sul pregiudizio: come possiamo agevolare un diverso approccio?
«Sono convinta che solo con il pubblico dibattito, con una corretta sensibilizzazione e informazione su questo argomento si possano abbattere tutti i tabù stratificati in millenni. Due, in particolare, sono gli àmbiti su cui credo ci si debba muovere: la formazione e i mezzi di comunicazione. È infatti a partire dai primi anni di scuola che si impara a “includere” la persona con disabilità, anzi, direi che i bambini sono le persone che naturalmente tendono a superare le difficoltà dovute alla diversità, ma questo istinto naturale va ravvivato dagli insegnanti e dalle istituzioni scolastiche, che possono inserirsi, integrando e lavorando in sinergia con l’educazione familiare. Basti pensare che nella “civile Europa”, ancora più del 60% degli allievi con disabilità delle scuole primarie frequenta una classe o una scuola speciale per comprendere quanta strada vada ancora fatta. Per far questo, quindi, bisogna che gli insegnanti, gli assistenti sociali e tutti gli attori che ruotano attorno all’inclusione della persona con disabilità vengano adeguatamente formati.
I mezzi di comunicazione, poi, hanno un’enorme responsabilità perché raggiungono tutte le fasce di età e di scolarizzazione. Sarebbe opportuno che attuassero una sorta di “rivoluzione copernicana”, affrontando l’argomento non più a partire dai bisogni (strategia sicuramente più efficace per suscitare attenzione alla notizia), ma a partire dai diritti dell’uomo, che sono gli stessi per ogni persona in qualsiasi condizione, a qualsiasi età. In altre parole, la disabilità non dovrebbe più essere affrontata come un “problema di nicchia”, che riguarda un piccolo gruppo di persone, ma come un problema con cui ciascuno di noi deve fare i conti, a volte, sempre o in particolari momenti della nostra esistenza (l’allungamento della vita, ad esempio, include necessariamente anche un problema di disabilità a diversi gradi)».
Alla base della Convenzione ONU c’è un nuovo modello di giustizia, basato sul rispetto dei diritti umani. Può spiegarci il concetto di “welfare dell’inclusione sociale”, che troviamo nel vostro documento?
«È proprio quella “rivoluzione copernicana” di cui parlavo in precedenza: non si parla più di una giustizia metafisica, né assistenziale o risarcitoria, espressione di una “protezione” sociale verso il bisognoso, ma si parla di empowerment [“rafforzamento della consapevolezza”, N.d.R.] di ciascuna persona, di inclusione sociale, attraverso interventi non più assistenziali-sanitari, ma orientati a rimuovere barriere e ostacoli, per promuovere i processi di autonomia e di inclusione in ogni settore: lavoro, trasporti, ambiente ecc.
Qual è la conseguenza di questo nuovo modello? Che le persone con disabilità – da categoria vulnerabile per una diversità funzionale – ridiventano cittadini a tutti gli effetti, perché titolari degli stessi diritti e degli stessi doveri degli altri, che devono beneficiare di politiche, di programmi e di risorse non più considerate “aggiuntive” (pertanto le prime destinate ai tagli in situazioni di scarsità delle risorse), ma delle stesse politiche, degli stessi programmi e delle stesse risorse destinate ad ogni cittadino.
Il “welfare di inclusione” di cui parla il nostro documento riconosce la condizione di discriminazione, le barriere e gli ostacoli che le persone con disabilità incontrano nel loro quotidiano e misura il loro livello di partecipazione e cittadinanza in condizione di eguaglianza con gli altri cittadini. Allora, prima di tagliare le risorse pubbliche verso queste persone, bisogna conseguire l’eguaglianza reale alla vita della società. In tal modo, da escluse e assistite, esse diventano parte organica della società a cui danno il loro contributo, da quello di carattere economico a quello “semplicemente” umano».
Parlando di bioetica e persone con disabilità – e in particolare pensando ai progressi medico-scientifici e soprattutto alle indagini prenatali – vediamo che la vostra posizione è piuttosto netta, rispetto all’elemento discriminatorio che trovate alla base delle diagnosi del feto. Considerando che l’aborto è espressamente vietato nella Repubblica di San Marino, può spiegarci perché tale pratica viene considerata come «un esempio di violazione dei diritti umani di persone con disabilità»? E conseguentemente, quale alternativa proponete a supporto delle famiglie gravate da scelte tanto difficili?
«La nostra posizione non scaturisce da un particolare contesto socio-normativo né da una particolare impostazione politica, ideologica o religiosa (tenga conto che il Comitato è composto da professionisti di diversa estrazione, non solo culturale, ma anche di diverso orientamento ideologico), bensì dalla considerazione che l’unico elemento che può accomunare ciascuno di noi è proprio il rispetto dei diritti umani. Infatti, è grazie a tale elemento che il Comitato ha lavorato in assoluta sintonia e ha approvato il documento all’unanimità.
Il documento non si esprime sull’aborto in sé, ma sull’utilizzo cosiddetto “terapeutico” dell’aborto, tramite la diagnosi prenatale – anche quella genetica – come forma di “nuova eugenetica”, atta cioè ad eliminare qualsiasi forma di malformazione, certa o presunta (sappiamo infatti che i test prenatali non garantiscono sempre una precisione diagnostica), attraverso l’eliminazione del feto. In tal senso, il documento è molto critico sull’espressione “intervento terapeutico”, in quanto, con grande schiettezza e coraggio, nega che l’oggetto di tale intervento sia il feto, che non viene curato, ma eliminato, sulla base di un parametro discriminatorio (la presunta o accertata malformazione), in aperta violazione degli articoli 10 (Diritto alla vita) e 25 (Salute) della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità. Ricordo a questo punto che è proprio dagli articoli della Convenzione che siamo partiti per esemplificare le diverse violazioni nei confronti delle persone con disabilità, in quanto detentrici degli stessi diritti di ogni altro essere umano…
Per supportare la coppia e la famiglia in un momento così difficile, il documento sottolinea l’importanza di una corretta e completa forma di counselling, con la presenza di genitori e/o membri di associazioni, competenti e formati, che si occupano di quella particolare diversità funzionale da cui è – o potrebbe – essere affetto il feto, proprio per avere una visione il più possibile chiara dei problemi e delle eventuali soluzioni già sperimentate da altre famiglie».
In genere le persone sono portate a scegliere l’aborto per paura, per il senso di solitudine, associata alla consapevolezza di non avere un adeguato supporto psicologico ed economico. Sono famiglie che guardano al futuro con un profondo senso di angoscia e abbandono, maturato dalla consapevolezza che le difficoltà nel crescere un bimbo con disabilità siano notevoli. In tal senso, si percepisce tutta la carenza delle Istituzioni e delle relative risorse per questo àmbito, nel quale solo le varie associazioni danno un aiuto fondamentale. Come vi ponete, riguardo a questo aspetto così personale, alla luce anche del recente Rapporto dell’Unicef La condizione dell’infanzia nel mondo. Bambini e disabilità, ove si parla di 93 milioni di bambini con disabilità nel mondo, considerati tra i più emarginati di tutti?
«È vero che la società grava le persone con disabilità di uno stigma negativo, perché riduce le persone a una caratteristica e non offre loro gli adeguati sostegni. Abbiamo mai pensato di ridurre alla SLA [sclerosi laterale amiotrofica, N.d.R.] Stephen Hawking, il più grande astronomo vivente? Oppure di considerare Beethoven un “povero sordo”, o Proust un asmatico? Ogni persona ha una sua forma di funzionamento individuale e irripetibile, fatta di tutte le sue caratteristiche, che vanno rispettate e valorizzate. È compito della società rimuovere questo stigma e garantire quei sostegni necessari al rispetto dei diritti umani.
La Convenzione ONU sottolinea che tutte le persone con disabilità devono poter godere dei loro diritti umani e delle libertà fondamentali. Ed è questo il messaggio positivo che il nostro documento vuole dare alle famiglie, ma anche agli operatori e decisori politici. Qualche anno fa, ad esempio, nessuno avrebbe mai pensato che un Pablo Pineda si potesse laureare [e anche insegnare all’Università, N.d.R.], anche se vive con la sindrome di Down, o che una persona amputata ad ambedue le gambe potesse correre alle Olimpiadi, come Oscar Pistorius. Perché questo accada, risulta fondamentale il ruolo dei genitori, delle stesse persone con disabilità, delle associazioni e di tutti coloro che sono sensibili ai nostri diritti, per rimuovere appunto questa visione negativa e costruire una società dove tutti siano benvenuti».
Rispetto al tema dell’eutanasia, sempre nel contesto bioetico, vorremmo una sua riflessione – sia dal punto visto morale, sia soprattutto umano – sul “caso Eluana Englaro”, che qualche anno fa ha letteralmente “spaccato in due” il nostro Paese, con un dibattito acceso anche a causa dell’intromissione della politica.
«Ritengo che sul caso di Eluana Englaro si sia argomentato molto e non sempre in maniera corretta e scevra da strumentalizzazioni politiche. Davanti alla sofferenza profonda di esseri umani e delle loro famiglie si dovrebbe avere compassione e rispetto. Mi limiterò, pertanto, a sollevare alcuni aspetti cruciali dal punto di vista bioetico, inquadrandoli secondo l’impostazione del documento da noi prodotto: come va intesa una vita in stato vegetativo? Come uno stato di grave disabilità? E come va valutato il suo diritto alla vita? Sulla base del parametro della qualità di vita? E ancora: chi può esprimere tale valutazione in assenza del soggetto? La qualità della vita delle persone con disabilità dipende dalle stesse condizioni che determinano la qualità della vita delle altre persone? Qual è lo scarto temporale che ci permette di inquadrare una vita come non più degna di essere vissuta? E infine: quanto incidono le opportunità di sostegno presenti nelle diverse società a decisioni così estreme? Sono questi i quesiti su cui il Comitato ha argomentato nella stesura del documento, individuando negli articoli 10 e 25 della Convenzione ONU – che ho citato in precedenza – i princìpi-guida».
Pari opportunità, uguaglianza di trattamento e accesso ai servizi sociali: nel 2010 la FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap) aveva pubblicato una ricerca in materia di discriminazione nello specifico àmbito della disabilità, in relazione ai servizi offerti. Come avete valutato questo tema?
«La Convenzione ONU riconosce che le persone con disabilità sono discriminate e senza parità di opportunità. Gli interventi pubblici, e la responsabilità dei privati, dovrebbero essere orientati ad offrire a queste persone gli opportuni e adeguati sostegni affinché potessero godere dei diritti umani. Purtroppo, spesso, i cosiddetti servizi sociali sono disegnati su modelli assistenziali, non sono basati su progetti individualizzati e mancano della partecipazione diretta delle stesse persone con disabilità (o, quando essi non si possono rappresentare da soli, di quella dei loro genitori). Per questo è necessaria una profonda trasformazione culturale e politica: le persone con disabilità non sono “speciali”, sono cittadini come gli altri, devono essere incluse in tutte le politiche. Un solo semplice dato: nel mondo le persone con disabilità sono un miliardo, il 15% della popolazione mondiale. Ma ricevono il 15% delle risorse e politiche pubbliche? E lo ricevono in maniera appropriata?».
Concludendo, alla luce di quanto esposto nel documento e tenendo presente che tutti gli argomenti trattati hanno un forte impatto sociale, come auspica che si dovrebbe diffonderlo, onde potere ottenere di fatto l’Approccio bioetico alle persone con disabilità?
«Credo che l’ausilio più importante nella diffusione di questo documento sia la rete delle associazioni della disabilità, che possono dar voce a questi princìpi a partire dai mezzi di comunicazione. Non è più pensabile che il problema della disabilità venga affrontato in un àmbito ristretto. Nel documento abbiamo evidenziato proprio questo: la disabilità è un problema che riguarda ciascun essere umano perché fa parte della diversità che contraddistingue tutti noi, in modi e in misure diverse. La discriminazione della persona con disabilità non viola una categoria di persone, ma viola l’essere umano nei suoi diritti essenziali. Questo nuovo approccio bioetico, basato sui diritti umani, può e deve essere utilizzato in ogni àmbito sociale, perché è al di sopra di ogni impostazione politica, ideologica e religiosa. E devono essere proprio le associazioni a sensibilizzare e ad “educare” chi opera con i mezzi di comunicazione, indicando una corretta impostazione delle informazioni. Anche questo fa parte della “rivoluzione” di cui parlavamo prima: la persona con disabilità non più oggetto delle informazioni, ma soggetto attivo ed educatore di un nuovo approccio. È da questa educazione della pubblica opinione che si deve partire per arrivare poi alle decisioni in ambito di programmazione sociale e politica: è questa la strada da percorrere per giungere a quel concetto di “welfare dell’inclusione sociale”.
Il Comitato Sammarinese di Bioetica ha fornito uno strumento teorico, il nostro auspicio è che il grande numero di associazioni presenti nei diversi Stati possa utilizzarlo…».