Come dovrebbe essere progettato e realizzato un ambulatorio per poter essere definito accessibile? Lo abbiamo chiesto a Piera Nobili, architetta e presidente di CERPA Italia (Centro Europeo di Ricerca e Promozione dell’Accessibilità), nel momento in cui – come Gruppo Donne UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare) -, abbiamo deciso di approfondire il tema dell’accesso delle donne con disabilità ai servizi ostetrico-ginecologici.
Una risposta corretta non può per altro concentrarsi solo sullo spazio ambulatoriale, perché l’accessibilità – prima di farsi progetto – è un modo di guardare alle persone (con le loro differenze, anche di genere), agli ambienti, e alla relazione che si instaura tra essi. In questa prospettiva, infatti, andrebbero ripensati tutti gli ambienti sanitari, non solo gli ambulatori. (Simona Lancioni)
Alcuni anni fa, in occasione di una comunicazione che tenni nell’ambito di un convegno sulla relazione fra disabilità e ambiente, dovendo intervenire in particolare sul concetto dell’intersezionalità, decisi di parlare usando solo pronomi e nomi femminili. Dopo alcuni minuti, un uomo seduto in sala prese la parola e cortesemente protestò perché mi stavo rivolgendo solo al pubblico femminile escludendo la parte maschile. Era quello che volevo e lo ringraziai, perché sicuramente non era l’unico ad averlo pensato, ma l’unico ad averlo evidenziato.
Da lì presi spunto per avviare una riflessione sulle discriminazioni e su ciò che le sostiene, utilizzando quanto era avvenuto. Ogni struttura linguistica, e i singoli lemmi che la compongono, sottendono sempre un non detto che rimanda a qualcos’altro. E questo qualcos’altro è rappresentato dal simbolo che lo mette in scena senza dichiararlo, per cui parlare al maschile (nominarlo) come solitamente avviene, non significa essere neutri e contenere anche l’altro/a diversi/e, significa, invece, dare preminenza e riconoscere solo il maschile.
Esistono nella nostra cultura (così come in altre) paradigmi che definiscono i rapporti di potere come – per ciò che qui interessa – quello dei “normodotati” nei confronti delle persone con disabilità. Tali paradigmi tendono a negare ogni individualità e soggettività, rappresentandoli solo come entità indistinta e collettiva, in tal modo attivando un processo di cancellazione dell’altro reale che viene sostituito da stereotipi, verso i quali è possibile operare processi di marginalizzazione.
Anche all’interno della stessa entità collettiva e marginalizzata avviene un’analoga operazione: la persona con disabilità è rappresentata dal maschio adulto e la disabilità è appiattita su quella fisica; basta guardarsi semplicemente attorno e vedere i simboli grafici utilizzati, che cancellano giovani, anziani/e, donne e le molte e diverse disabilità.
Questo per dire che una donna con disabilità sconta le ricadute almeno di una doppia differenza, culturalmente e politicamente non accolta nella società: da un lato quella di genere, dall’altro quella definita dallo stato di salute; quest’ultima si scontra e fa i conti con il cosiddetto disablism, entrambe con la discriminazione multipla, creando una disparità sociale in termini sia di opportunità alla vita indipendente e alla conquista di autonomia, che di riconoscimento di sé in quanto soggetto di diritti e soggetto politico.
Con disablism (tradotto in “disablismo”) si intende un comportamento discriminatorio, oppressivo o di abuso che origina dal convincimento che le persone disabili siano inferiori agli altri, in quanto “mancanti” di una qualche abilità misurabile. In tal caso si tratta di una discriminazione intenzionale, ma non sempre è così, in taluni casi, infatti, si tratta di un “disablismo” non intenzionale, ossia del comportamento di chi sostiene valori egualitari e si considera libero da pregiudizi, ma di fatto discrimina in modi sottili. Comportamento alle volte presente anche nelle persone affettivamente più vicine (genitori, parenti, amici), che possono indirettamente portare a restringere le attività di una persona con disabilità per eccesso di protezione o per insicurezza sulle sue effettive capacità.
Accostando al fattore disabilità quello di genere, parliamo di discriminazione multipla, come è stata definita da un Rapporto della Commissione Europea nel 2007, ove si dice appunto che la discriminazione non sempre è riferibile a un’unica dimensione, bensì agiscono due o più fattori concomitanti. La letteratura scientifica ha ulteriormente distinto la discriminazione multipla, dando luogo a diverse definizioni: la discriminazione addittiva, che risulta da più fattori disgiunti fra loro; la discriminazione amplificatrice, dove i fattori discriminanti agiscono per sommatoria; la discriminazione intersezionale, ove i fattori discriminanti, in questo caso, non sono separabili perché fra loro interagenti
È proprio la discriminazione interiezionale quella che qui interessa maggiormente, in quanto rappresenta la condizione in cui più spesso le donne con disabilità si confrontano nel quotidiano.
Una donna con disabilità, in quanto donna e in quanto disabile, proprio nell’intersezione fra queste due categorie discrete, vede negati molto spesso i propri diritti. Ad esempio, il diritto alla salute e alla prevenzione trova ostacoli ambientali barrieranti sotto diversi profili: luoghi e attrezzature inaccessibili, personale non preparato e alle volte indifferente alla persona che si trova di fronte, organizzazione dei tempi di visita o di terapia non coniugati con i tempi di vita o semplicemente di spostamento, troppo spesso dipendente da altri (parenti, amici, servizi).
Un esercizio cui spesso mi sottopongo è quello di provare a fare “come se fossi…”, attingendo da un lato alle mie personali esperienze di donna, e dall’altro a quanto ho imparato confrontandomi con donne con disabilità. Conosco il disagio, a volte l’umiliazione e altre la rabbia che il corpo medicalizzato e parcellizzato (dietro cui io donna scompaio) mi ha fatto vivere, comprendo le difficoltà incontrate da molte donne con disabilità nel fruire dei servizi sanitari in genere e in particolare di quelli di ginecologia e ostetricia.
Per superare queste difficoltà, è necessario che il personale sia formato all’incontro e alla relazione con le proprie pazienti, e che l’ambiente costruito possieda quell’insieme di prestazioni volte a favorire l’usabilità di ogni sua componente e il benessere psico-fisico di coloro che lo vivono.
All’ambiente non è richiesto di essere un neutro contenitore che preservi noi esseri umani, ma un sistema (sempre più complesso) che funzioni e mostri in modo trasparente il suo funzionamento, dal punto di vista sia dell’accessibilità e dell’usabilità, che della riconoscibilità (orientamento-comunicazione) e piacevolezza.
Per favorire la riconoscibilità e al contempo rendere piacevoli i luoghi che compongono le strutture sanitarie, è indispensabile che lo stesso edificio sia di semplice e immediata interpretazione, ma senza che questo diventi monotono e ripetitivo, al punto da essere disorientante per mancanza di figuratività e leggibilità spaziale.
L’attribuzione di identità e struttura agli elementi che definiscono lo spazio costruito è un’esigenza vitale per coloro che esperiscono quello spazio, in quanto il movimento intenzionale comporta un’elaborata memorizzazione di particolari e sequenze a cui assegnamo il nome di orientamento: muoversi non è un’attività semplice, richiede di poter elaborare concetti di posizione, direzione e raggiungimento di un punto d’arrivo, conosciuto il punto di partenza.
Non a caso, i primi e fondamentali “ausili” alla mobilità intenzionale (orientamento) sono gli stessi elementi costituenti lo spazio costruito che – dando informazioni ambientali discrete – fungono da punti di riferimento, divenendo supporti all’organizzazione dell’ambiente. Questi sono letti attraverso il corpo in movimento, corpo che in contemporanea usa, oltre alla propria postura, anche tutti i sensi a disposizione per stabilire la propria posizione nello spazio.
Questa attività connessa al riconoscimento degli elementi costituenti lo spazio, degli oggetti e degli arredi contenuti e distribuiti nello spazio medesimo, è facilitata se vengono impiegati contrasti di colore fra elementi orizzontali e verticali, fra arredo e sfondo della parete, fra perimetro dell’oggetto e superficie inclusa (facilitano la percezione); se viene impiegata la luce sia naturale che artificiale in modo significante; se viene impiegata un’alternanza di superfici ruvide e lisce, dure e morbide (agevolano il riconoscimento); se vengono impiegate variazioni di temperatura (identificano la posizione lungo il percorso); se vengono impiegati suoni costanti, quale un piccolo zampillo d’acqua (agevolano l’orientamento); se vengono infine impiegati odori gradevoli, emanati naturalmente mediante fiori ed essenze o artificialmente tramite diffusori elettrici o con fonti di calore (discriminano l’ambiente). Dovendo rispondere alle diverse modalità percettive, comunicative e intellettive di noi viventi, lo spazio deve farsi multisensoriale.
Provando ora ad addentrarci negli spazi di un ipotetico luogo di cura, a queste prime indicazioni generali se ne affiancano altre, maggiormente di dettaglio, che, per facilità di descrizione, nominerò e descriverò separatamente.
Raggiungibilità
I servizi sanitari devono essere facilmente raggiungibili, sia con mezzi privati che con mezzi pubblici. La fermata dei mezzi pubblici deve trovarsi nelle immediate vicinanze dell’ingresso alla struttura, sia in andata che in ritorno, dev’essere dedicata ad essa una piazzola d’attesa protetta dagli agenti atmosferici, ben illuminata anche nelle ore notturne e facilmente fruibile da persone con disabilità fisiche, sensoriali e psicologico cognitive. Deve, inoltre, essere fornita di una colonna informativa informatizzata che illustri orari, tempi d’attesa, mezzo pubblico in arrivo e sua destinazione ecc., utilizzando tutti i diversi sistemi comunicativi: scritto, braille, vocale, plurilingue. I mezzi pubblici (bus, metrò, navette di superficie ecc.) devono essere accessibili e usabili, dotati di indicatori di percorso sia scritti che vocali.
Sempre nelle immediate vicinanze dell’ingresso, dev’essere inserita una colonnina di chiamata diretta ai mezzi di piazza. Anche questa dev’essere collocata in una piazzola adeguata alla sosta del mezzo e attrezzata con una pensilina con posti a sedere, essere ben illuminata e facilmente utilizzabile da persone con disabilità fisiche, sensoriali e psicologico cognitive.
Parcheggi
I parcheggi dedicati alle persone con disabilità devono essere localizzati nelle immediate vicinanze dell’ingresso o ingressi alla struttura, essere riparati dalle intemperie (nel rispetto del diverso tempo occorrente alla salita/discesa dal mezzo) e collegati mediante un percorso coperto e segnalato all’ingresso/i del servizio.
L’intero parcheggio – soprattutto se ampio -, nonché i percorsi, dovranno essere muniti di sistemi di orientamento verso l’ingresso o gli ingressi cercati, mediante l’impiego di strutture visive (colori, pittogrammi, scritte, elementi direzionali), strutture tattili e tattilo plantari (braille, plastici, cambio di materiali), strutture audio (segnalatori acustici, voci direzionali) che tengano conto dell’impossibilità a leggere (bambini, afasici, stranieri), delle disabilità fisiche, sensoriali e psicologico cognitive. Tale segnaletica dev’essere collocata a margine dei percorsi, per non costituire ostacolo alla mobilità, fatta eccezione, ovviamente, a quella tattilo-plantare.
Ai fini della sicurezza, soprattutto delle donne (ma anche di bambini/e e persone fragili), i parcheggi non dovranno presentare recessi nascosti alla vista, essere ben illuminati in ogni loro parte durante le ore notturne ed essere provvisti di colonnine SOS con interfono, display e tastierino (per persone sorde o ipo-acusiche) per chiamate d’emergenza.
Accesso
Un aspetto importante dell’accesso alle prestazioni sanitarie è quello connesso al tempo. Molte donne con disabilità dipendono per gli spostamenti da altre persone, o gli orari di visita-esami spesso si sovrappongono con quello delle terapie in corso. Gli orari d’apertura dei servizi devono quindi essere programmati anche in funzione delle esigenze espresse dalle fruitrici e dai loro caregiver [assistenti di cura, N.d.R.]. L’apertura di questi servizi con orario prolungato (ad esempio anche durante la pausa pranzo), o pomeridiano/serale può consentire un più facile utilizzo.
L’impiego di sistemi telematici di prenotazione, pagamento e ritiro referti rende più rapido e facile l’accesso sia alle richiedenti che ai medici di base o specialisti che potrebbero – direttamente con la compilazione dell’impegnativa – fissare gli appuntamenti necessari. Anche l’acquisto di farmaci può essere facilitato dalle tecnologie informatiche: sempre più, infatti, sono gli esempi che si stanno diffondendo in tal senso.
Ingresso
Nel caso di strutture complesse, gli ingressi saranno distinti e separati per funzioni, ad esempio, quello pubblico da quello del personale. Il loro raggiungimento dev’essere assicurato da segnaletica specifica lungo percorsi chiaramente individuabili. L’ingresso pubblico dev’essere riconoscibile, ben illuminato durante le ore serali e notturne, non presentare dislivelli con il percorso d’arrivo e – se esistenti – superabili mediante gradini affiancati a rampe da percorrere autonomamente e/o sistemi elettro-meccanici di sollevamento.
La bussola d’ingresso (utile per l’isolamento dall’aria) dev’essere dimensionata per l’attesa di più persone e di una persona su sedia a ruote più un accompagnatore, nell’arco di tempo fra la chiusura della prima porta e l’apertura della seconda. Nel caso di impiego di porte ad anta battente ad azionamento manuale, devono essere chiaramente distinguibili l’anta principale e il verso di apertura (spingere-tirare), mentre le maniglie di spinta e di tiro dovranno prevedere diversi punti di presa ad altezze differenti.
All’ingresso devono trovarsi punti di distribuzione di ausili alla mobilità, quali sedie a ruote o piccoli scooter elettrici per lunghe percorrenze, per coloro che ne facciano richiesta.
Ricezione
Per ricezione si intende quel luogo della struttura nel quale trovano collocazione una serie di funzioni interne di supporto all’informazione, all’accettazione, al ritiro referti, alle pratiche di prenotazione, di pagamento e amministrative. Tutte queste funzioni hanno un dato in comune, quello della relazione fra il pubblico che accede e il personale che accoglie e presta servizi complementari a quanto viene richiesto. Sono funzioni basilari a rendere più confortevole, facile e accessibile l’ambiente nel suo complesso e il raggiungimento della prestazione sanitaria richiesta.
Per tali motivi, la postazione di prima accoglienza e di informazione dev’essere collocata nelle immediate vicinanze dell’ingresso pubblico e, nel caso di più ingressi, facilmente raggiungibile tramite un percorso interno corredato di segnalazioni direzionali visive, tattili, uditive ecc., o moltiplicata nel caso in cui gli ingressi attengano a servizi diversi e siano fra loro particolarmente distanti.
Accoglienza
Di questa categoria fanno parte tutte quelle funzioni che hanno attinenza con l’attesa, il ristoro e i servizi igienici.
La zona d’attesa dev’essere collocata in un’area dedicata e non lungo corridoi, per quanto ampi o in rientranze su di essi ricavate. Qui dev’essere prevista un’area libera per la sosta di persone su sedia a ruote ed essere allestita con arredi confortevoli e sicuri. Il sistema di chiamata per l’accesso al servizio richiesto, in base al numero di prenotazione, dovrà essere realizzato sia tramite strutture visive, che indichino – con ampi caratteri (nero su bianco) -, la stanza a cui accedere e il numero chiamato, sia tramite sistema vocale o altri sistemi che garantiscano l’autonomo accesso di persone ipo e non vedenti, nel rispetto della privacy.
La zona ristoro può essere costituita, in base alla dimensione della struttura che la ospita, da un vero e proprio bar, oppure da un’area con distributori automatici. In entrambi i casi essa sarà da collocarsi in uno spazio confortevole e dedicato, che consenta anche l’inserimento di tavoli e sedute.
I bagni pubblici, infine, devono essere facilmente individuabili e suddivisi per maschi, femmine e bambini/e. Tutti i bagni e relativi antibagni devono essere accessibili e usabili per persone con disabilità fisiche, sensoriali e psicologico cognitive.
I bagni dedicati ai bambini/e avranno sanitari, rubinetterie e accessori bagno adeguati per dimensioni e prestazioni alla loro dimensione e bisogni corporei; tutti i bagni e relativi antibagni dovranno essere accessibili e usabili anche per bambini/e con disabilità fisica, sensoriale e psicologico cognitiva.
Nell’area dei bagni dedicati ai bambini/e sarà ricavato uno spazio adeguatamente dimensionato e accessoriato per la cura di bambini/e al di sotto dei tre anni di età, spazio, questo, che dovrà prevedere la mobilità e la sosta di almeno una carrozzina e di un adulto.
Attrezzature e arredi
Le attrezzature e gli arredi fanno parte dell’ambiente e contribuiscono a restituire senso e uso a ogni singolo spazio.
In una struttura ospedaliera – per i luoghi sinora descritti – le attrezzature con cui possiamo entrare in contatto sono principalmente i distributori automatici: di numeri per la precedenza, di pagamento di ticket, di bevande calde o fredde, di spuntini ecc., quasi sempre inaccessibili. Questi devono essere invece facilmente individuabili e collocati in uno spazio a loro destinato. Lo spazio loro antistante, poi, dovrà essere almeno sufficiente alla mobilità e alla permanenza di una persona su sedia a ruote con accompagnatore, tenendo al contempo presente le code nelle ore di punta dei diversi servizi.
Per essere accessibili e usabili, i distributori devono essere conformati in modo tale che permettano un agevole avvicinamento e accostamento anche per persone che usano ausili alla mobilità, che siano raggiungibili (per altezza, dimensione e forma) i comandi necessari alla richiesta e facilmente comprensibili le scelte da effettuare (ad esempio, a quale servizio o a quale funzione accedere), e le operazioni da svolgere.
I comandi dovranno essere individuabili e identificabili per forma e colore, nonché tramite lettere a rilievo, braille e pittogrammi. Le scelte da effettuare e le conseguenti operazioni dovranno essere spiegate sia tramite testo scritto, con caratteri ampi in colore nero su bianco (eventualmente su display a scorrimento lento, con scelta della lingua), in caratteri a rilievo e in braille, sia tramite voce registrata che accompagni le azioni da eseguire e che informi di eventuali inesattezze nell’esecuzione, confermando il buon fine ad operazione ultimata.
I banconi (bar, informazioni, accettazione, ritiro referti, amministrazione ecc.) devono essere ad altezza raggiungibile e usabile da persone di bassa statura o su sedia a ruote, essere dotati di posti a sedere anche per il pubblico (persone anziane), non devono avere al di sotto tamponamenti ciechi a chiusura, a meno che non siano arretrati, per consentire l’inserimento delle gambe di una persona seduta e delle predelle delle sedie a ruote. A corredo il piano avrà una parte rialzata a supporto del pubblico che opera in piedi. Nella zona antistante al bancone dovrà essere prevista infine un’adeguata area dedicata alla mobilità di più persone contemporaneamente e di persone su sedia a ruote.
Analoga attenzione si deve avere per gli eventuali ripiani a muro dell’area ristoro o dell’area amministrativa; anche questi avranno due altezze differenti, una per chi consuma/opera in piedi ed è alto di statura, una per chi consuma/opera seduto o è basso di statura.
I tavoli avranno dimensioni tali da poter consentire l’agevole inserimento di una persona su sedia a ruote fra le zampe di sostegno; il piano non presenterà spigoli ed angoli vivi, bensì saranno arrotondati. Le sedute saranno separate dai tavoli e avranno un appoggio a terra buono e stabile, per evitare ribaltamenti. Almeno alcune, poi, saranno fornite di braccioli per agevolare il riposo, nonché le azioni di seduta e risalita da parte di persone anziane.
Passo ora ad aspetti di ulteriore dettaglio, nella consapevolezza che un ambiente – per farsi effettivamente includente – non trova nella normativa vigente tutte le indicazioni necessarie, perché non tutto è prescrivibile, in quanto il benessere ambientale (sicurezza, comfort, accessibilità, usabilità, fruibilità, riconoscibilità, piacevolezza ecc.) ha a che fare con gli stili di vita, le abitudini e la cultura che lo produce e con le prestazioni richieste ad ogni luogo.
Da questo punto di vista, faccio riferimento all’ampia letteratura tecnico-scientifica sul tema del benessere ambientale, all’approccio progettuale dell’Universal Design [“Progettazione universale”, N.d.R.], alla Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, ratificata dallo Stato Italiano con la Legge 18/09 e alla Legge 67/06 sulla discriminazione delle persone con disabilità.
Come già accennavo, la cultura sanitaria – non riconoscendo identità ai pazienti né tanto meno identità sessuale -, percepisce e manipola il corpo, mettendo al centro l’organo investito dalla malattia e con ciò dimenticando la dimensione più intima, i bisogni e le aspettative che il soggetto incarnato porta con sé. Questo atteggiamento accade con maggiore frequenza nei confronti delle donne con disabilità. L’intersezionalità fra essere donne, essere disabili ed essere in una condizione di subalternità nei confronti di chi detiene il sapere (potere) medico facilita le situazioni di violenza fisica e psicologica, ambientale e strumentale.
Qui mi soffermerò sugli aspetti ambientali e strumentali, essendo quelli di mia competenza, riportando in forma schematica le prestazioni che lo spazio e le attrezzature dovrebbero possedere.
Ambulatori
Gli spazi ambulatoriali devono essere accoglienti (perché relazionarsi al di là e al di qua di una scrivania?); garantire la dovuta privacy (ossia essere isolati acusticamente verso l’esterno, avere finestre opportunamente schermate); avere un’illuminazione naturale e artificiale diffusa che non abbagli e che non crei coni d’ombra; avere spazio sufficiente per consentire la mobilità interna a donne che usano ausili alla mobilità; essere dotati di ogni forma di comunicazione (comunicazione aumentativa e alternativa – CAA) che sostituisca, integri e aumenti il linguaggio verbale orale, per rendere efficace e possibile la relazione; essere dotati di strumenti informatici di comunicazione per donne sorde o con ipoacusia; disporre di trascrittori in lingue diverse, in formato braille o con lettere a rilievo, al fine di rendere leggibile e comprensibile la terapia prescritta; avere a disposizione uno spazio spogliatoio separato e protetto alla vista, dove la donna possa svestirsi e vestirsi per la visita o l’esame (tale spazio deve consentire la mobilità per una donna su sedia a ruote e per l’eventuale infermiera o accompagnatrice, essere dotato di attaccapanni e portaborse a differenti altezze e di una seduta con braccioli); soprattutto, poi, se si parla di un ambulatorio di ginecologia o ostetricia, esso dev’essere dotato di un bagno con antibagno direttamente collegato per le pazienti, avente caratteristiche di accessibilità e usabilità.
Strumentazioni
In generale le strumentazioni sanitarie non sono accessibili e usabili. Alcuni esempi.
La poltrona del dentista presenta difficoltà nella traslazione dalla sedia a ruote alla poltrona medesima, in quanto – pur potendola abbassare – manca di rotazione e snodi che ne consentano l’adattamento.
Il lettino ginecologico spesso non è ad altezza variabile e si deve ricorrere all’uso di sollevatori (quando ci sono e quando gli operatori sanno usarli), o all’aiuto delle infermiere; inoltre, spesso, l’appoggio delle gambe non è pensato per sostenerle, nel caso in cui la donna non ne abbia il controllo per qualsivoglia motivo.
Lo stesso problema è presente nel macchinario per la mammografia che ha un’escursione in altezza molto limitata, oltre a presentare problemi di avvicinamento se su sedia a ruote, a causa del piantone su cui è montato; anche le maniglie di presa, utili a conservare la posizione che debbono assumere le braccia durante l’esame radiologico, per una donna che non abbia l’uso delle braccia o delle mani, diventano impraticabili, e nemmeno le attrezzature dell’area radiografica sono adattabili alle specifiche esigenze delle donne con disabilità, oltre ad avere lo svantaggio di non poter contare sull’aiuto di una presenza. Analogamente accade per le strumentazioni oculistiche installate su piani che compromettono l’avvicinamento e che hanno una ridotta escursione in altezza. Inoltre, là dove le strumentazioni non possiedono criteri di accessibilità, mancano sovente attrezzature di movimentazione e di aiuto al sollevamento.
Molto altro si potrebbe ancora scrivere sul tema dell’inclusione ambientale e di come questa riguardi il bene-essere e il bene-stare dei molti corpi “diversi”, ma qui mi fermo perché significherebbe indagare aspetti di formazione del personale sanitario, di tempi dell’ascolto, di organizzazione ospedaliera, di rapporti di potere, di rispetto e indifferenza, di consapevolezza del proprio sé incarnato che richiederebbero un’altra trattazione e altre competenze.
Il Gruppo Donne UILDM ricorda Gaia Valmarin
Quattordici eventi e altrettante pubblicazioni della collana Donna e disabilità, tantissimi articoli, interviste, recensioni, adesioni a campagne ecc., organizzati per temi, varie segnalazioni di film attinenti alle donne disabili, centinaia di film attinenti alle donne disabili, centinaia di segnalazioni bibliografiche e di risorse internet schedate: è questa la produzione del Gruppo Donne UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare), che costituisce certamente una delle esperienze più vive e interessanti – nel campo della documentazione riguardante la disabilità – avviata nel 1998 in modo informale.
Gli obiettivi originari erano da una parte quello di raggiungere le pari opportunità per le donne con disabilità, attraverso una maggiore consapevolezza di sé e dei propri diritti, dall’altra cogliere la “diversità nella diversità”, riconoscendo la specificità della situazione delle donne disabili.
Poi, nel corso degli anni, il Gruppo ha cambiato in parte il proprio ambito d’interesse, oltre a non essere più composto da sole donne e a non occuparsi esclusivamente di questioni femminili. La stessa disabilità è diventata uno dei tanti elementi in un percorso di integrazione e di apertura su più fronti.
Nel 2008, per festeggiare il suo decimo “compleanno”, il Coordinamento del Gruppo Donne (composto allora da Francesca Arcadu, Annalisa Benedetti, Valentina Boscolo, Oriana Fioccone, Simona Lancioni, Francesca Penno, Anna Petrone, Fulvia Reggiani e Gaia Valmarin), decise di investire di più in informazione e in documentazione, recuperando i propri obiettivi originari, senza rinunciare all’apertura quale tratto distintivo. E così – come in un laboratorio – è iniziato un lavoro finalizzato a organizzare e rendere fruibili, attraverso il proprio spazio internet, le informazioni che circolano all’interno del Coordinamento stesso.
Un importante, ulteriore salto di qualità, infine, si è avuto con la creazione di un repertorio (VRD – Virtual Reference Desk), che raggruppa le varie risorse fruibili in internet (in lingua italiana) di e su donne con disabilità.
Nel 2011 il Gruppo Donne UILDM (che è anche su Facebook) ha anche ricevuto da Decima Musa Caravaggio (Associazione Culturale Europea-Compagnia Teatrale) il Premio Decima Musa «per il valore di un’attività finalizzata al raggiungimento delle pari opportunità, che sottolinea e affronta il problema specifico e la situazione delle donne disabili».
Un lavoro davvero prezioso, quindi, che purtroppo, recentemente, ha perso una delle sue prime “colonne”, a causa della dolorosa scomparsa di Gaia Valmarin, che a proposito della sua collaborazione con il Gruppo Donne UILDM aveva scritto: «Questa è una bellissima esperienza, che mi ha permesso di ampliare gli orizzonti e di aumentare la mia conoscenza del prossimo, e questo è il più bel dono che si possa ricevere!».