Una famiglia con disabilità – la famiglia Cavicchi di Pieve di Cento (Bologna), papà Egidio, mamma Gianna e le figlie Michela e Roberta – alle prese con i problemi della vita quotidiana: da sempre la riabilitazione e i problemi di salute della figlia con disabilità, ieri la sospirata pensione raggiunta stringendo i denti o mancata per poco, oggi l’integrazione sociale grazie al ballo.
Gianna ed Egidio, anche voi vi siete confrontati con la “storica” e ormai decennale – ma anche attuale – incapacità del Servizio Sanitario Nazionale di formulare diagnosi, terapie e prognosi per i nostri figli con disabilità. Ci volete raccontare i primi anni di Roberta?
«Roberta è nata, molto velocemente, quindici giorni prima della data prevista. A tre giorni dalla nascita ha avuto una prima crisi convulsiva ed è stata ricoverata subito in un centro più attrezzato. È stata dimessa con la diagnosi di ipomagnesemia e per i medici la situazione era già risolta con le cure fatte. Da subito abbiamo notato scatti con la testa, non giustificati da rumori o altro, ma catalogati dal pediatra come le “paure di una mamma ansiosa che vede anche quello che non c’è”. Poi, a sei mesi dalla nascita, e dietro nostra insistenza, Roberta è stata ricoverata in ospedale, dove hanno fatto le indagini del caso. La diagnosi è stata di sindrome di West. Iniziata subito la terapia con anticonvulsivi e cortisone, Roberta ha perso le poche capacità che aveva, si è gonfiata come un palloncino, dormiva quasi sempre, non reagiva a nessuna stimolazione e le crisi convulsive aumentavano anziché diminuire. Quando è stata dimessa, la neurologa ci ha consigliato di metterla in un istituto e di andare al mare con l’altra figlia, perché Roberta avrebbe vissuto solo a livello vegetativo… Dietro consiglio di un collega di lavoro, abbiamo allora contattato gli Istituti per lo Sviluppo del Potenziale Umano di Philadelphia – fondati da Glenn Doman* – e a 2 anni Roberta ha avuto la sua prima visita negli Stati Uniti.
All’epoca era una bimba magrissima, completamente ipotonica, muoveva solo il braccio sinistro, non sorrideva, non ci riconosceva, si ammalava ogni venti giorni con infezioni alla gola e le crisi convulsive erano quasi giornaliere. Con la terapia di Doman – fisica e intellettiva – e la vitamina C, Roberta ha smesso di ammalarsi, è aumentata di peso, sono diminuite le crisi e ha iniziato a recuperare a livello motorio. Dopo sei mesi strisciava, dopo un anno carponava, dopo diciotto mesi aveva acquisito la posizione eretta e dopo due anni camminava indipendentemente e parlava in continuazione, anche se in modo poco chiaro. Ha continuato il programma e a 11 anni ha sostenuto, da privatista, l’esame di quinta elementare, meravigliando sia le maestre che la direttrice della scuola per il risultato raggiunto.
Michela è sempre venuta con noi a Philadelphia ed era sempre più sconcertata per le differenze che notava tra il programma intellettivo della sorella e il poco che veniva fatto nella sua classe per una bambina che aveva qualche piccolo disturbo, assolutamente non paragonabile all’handicap di Roberta. A 12 anni, poi, Roberta ha fatto la vaccinazione antiepatite B e questo è stato l’inizio di un peggioramento che ci ha sconvolto di nuovo la vita e in modo ancora più tragico».
Ma secondo voi, c’è stato un rapporto diretto tra la vaccinazione e il peggioramento delle crisi convulsive?
«Sì, anche se subito non abbiamo capito che ci fosse attinenza con la vaccinazione. Con la prima dose di vaccino, a distanza di una settimana, ci siamo accorti che Roberta aveva la mano destra piegata a novanta gradi rispetto al braccio, in modo molto più accentuato di prima e abbiamo pensato che si fosse fatta male durante gli esercizi del programma; un occhio che prima era strabico verso l’interno era diventato strabico verso l’esterno e il linguaggio – da sempre poco chiaro, ma per noi comprensibile -, era diventato incomprensibile, con notevole arrabbiatura di Roberta stessa che non riusciva più a farsi capire.
Abbiamo attribuito questi peggioramenti alla stanchezza, perché si era in estate e il programma era molto impegnativo. Con la seconda dose di vaccino, poi, a distanza di dieci giorni, ha iniziato a fare degli urli di tre-quattro secondi, non motivati (prima urlava per il ronzio di un insetto). Gli urli sono diventati pian piano più frequenti e più lunghi. Nel frattempo siamo andati da Doman per una visita; un vero viaggio da incubo, ma l’abbiamo fatto sperando di trovare una soluzione. Dalla descrizione di queste crisi, la dottoressa degli Istituti ha ipotizzato che fossero “capricci”, ma le è bastato vedere uno di questi episodi per dire che c’era una forte sofferenza cerebrale e ci ha consigliato di fare una TAC per vedere cosa poteva essere successo (cisti o altro). La TAC non ha segnalato nulla e allora siamo andati in un laboratorio svizzero per una ricerca approfondita delle intolleranze e in sala d’attesa, per calmare l’ansia, abbiamo cercato qualcosa da leggere, trovando un opuscoletto che parlava dei danni da vaccino antiepatite B. Lo abbiamo letto velocemente e abbiamo trovato lì la causa dei disturbi di Roberta. Ma questo era ancora solo l’inizio, perché Roberta ha continuato a peggiorare, arrivando ad urlare fino a mezz’ora per diverse volte al giorno. A scatenare una di queste crisi bastava un odore proveniente dalla cucina anche di un appartamento vicino, un alimento, il dentifricio, il gas di scarico delle auto.
Non siamo più riusciti a svolgere il programma riabilitativo, ci siamo chiusi in casa, tante volte anche in camera sotto le coperte, non sapevamo più cosa darle da mangiare, e nonostante questo continuava a stare male.
Il rapporto con i medici è stato pessimo perché, appena tornati dalla Svizzera, abbiamo detto che la terza dose di vaccino non volevamo farla, per i forti dubbi che ci erano venuti e questo ha scatenato letteralmente le loro ire. Negli anni in cui andavamo da Doman, Roberta era stata disintossicata dai farmaci anticonvulsivi, per qualche anno era stata anche senza crisi, poi erano ricomparse, ma le tenevamo sotto controllo con le mascherine (“mascherine di riflesso”, utilizzate per migliorare la capacità respiratoria) ed era seguita solo dal pediatra. Con questo peggioramento erano peggiorate anche le crisi convulsive».
È stato dunque necessario per Roberta interrompere il programma riabilitativo. Avete continuato a mettere “a frutto” quanto avevate trovato sin qui di utile per Roberta o avete seguito altre strade?
«Nei tre anni circa in cui Roberta è stata malissimo era impensabile fare qualsiasi tipo di programma riabilitativo. Sembrava che l’unica cura possibile potesse essere il Valium ed è stato allora che ci siamo avvicinati alla medicina omeopatica. Pian piano Roberta ha iniziato a stare meglio e queste crisi sono diventate più brevi e meno frequenti, ma ancora ci impedivano di riprendere un programma riabilitativo intenso come quello di Doman. Allora ci siamo rivolti a Delacato [Carl Delacato, già collaboratore di Glenn Doman, N.d.R.] il cui programma era molto più leggero e fattibile».
Altre nostre famiglie con disabilità hanno seguito un percorso simile al vostro. Quali sono stati, per Roberta, i risultati derivanti, a vostro parere di genitori, dalle due diverse metodiche riabilitative?
«Di Delacato avevamo già sentito parlare da altre famiglie e avevamo letto libri, perciò, appena è stato possibile, ci siamo andati con Roberta, perché chi ha seguito il “metodo Doman” non riesce a stare fermo! Per dieci anni Roberta aveva fatto il “programma Doman” e aveva già raggiunto quasi tutto ciò che era possibile per lei. A nostro parere, con Delacato non avremmo raggiunto gli stessi risultati, ma ci ha aiutato a mantenerli.
Dopo qualche anno ci siamo fermati e abbiamo intrapreso il metodo uditivo Tomatis [o metodo audio-psico-fonologico, ideato da Alfred Tomatis, N.d.R.], perché Roberta aveva ancora molti disturbi con i rumori forti. Anche con questo programma, seguiti dalla dottoressa Alexandra Richardson della California, Roberta ha avuto dei benefìci a livello fisico, di salute e comportamentali, permettendoci così di rientrare in società».
In tutti gli anni che fin qui ci avete raccontato, oltre ad occuparvi di Roberta avevate una attività lavorativa? Siete riusciti a mantenerla?
«Prima della nascita di Roberta [la risposta è di Gianna, N.d.R.] lavoravamo entrambi, poi, con l’inizio del programma riabilitativo, ha continuato solo Egidio, che con i colleghi ha sempre avuto un buon rapporto ed essendo l’azienda grande, ha potuto permettersi un orario flessibile, riuscendo anche – con lotterie e sottoscrizioni – a finanziare l’ABC [Associazione Bambini Cerebrolesi, N.d.R.]. A 55 anni, dopo trentotto di lavoro, è andato in pensione, subito prima dell’entrata in vigore della legge che permette di andare in pensione due anni prima.
Io, invece, ho lavorato diciassette anni e poi mi sono licenziata per poter seguire Roberta. In quel periodo, per andare in pensione bastavano quindici anni lavorativi (poi passati a venti) e questa regola è rimasta, per la mia situazione, invariata fino alla recente Riforma Fornero, quando all’improvviso mi sono ritrovata fra i cosiddetti “esodati”. Dopo mesi di incertezze, mi è stato detto che se non pagavo i contributi per i tre anni mancanti, non avrei ricevuto la pensione; poi, grazie anche all’interessamento del sindacato, è stato raggiunto a livello nazionale un nuovo accordo: la pensione, cioè, è stata spostata avanti di ulteriori tre anni, senza pagamento dei contributi. Nel frattempo Roberta ha ottenuto una borsa lavoro di 50 euro mensili».
L’incontro di Roberta con il mondo del lavoro è stata un’esperienza indubbiamente importante. Quanto tempo è durata? Che impressioni ne ha tratto Roberta? E voi?
«Negli anni in cui abbiamo fatto il programma di Doman con Roberta, i Servizi Sociali del Comune ci hanno mandato un ragazzo del Servizio Civile quotidianamente; poi abbiamo interrotto questa collaborazione perché Roberta si è fermata. Successivamente, alla ricerca di progetti individuali, abbiamo riallacciato i rapporti con i Servizi Sociali, che ci hanno mandato una ragazza in Servizio Civile per due ore settimanali. Nel frattempo, l’assistente sociale dell’ASL ci ha proposto una borsa lavoro per Roberta in un negozio equo e solidale che impegnava anche noi genitori come volontari.
L’esperienza è stata molto proficua, a livello sociale, perché Roberta aveva modo di incontrare e parlare con gente diversa, anche se dopo, con l’arrivo della crisi, la mattinata passava senza che si vedesse nessuno e quindi con grande noia».
«Nel frattempo – conclude Gianna – è arrivata la licenza per la costruzione di un garage e perciò abbiamo interrotto questa esperienza, anche per mancanza di tempo, perché io ho un impegno quotidiano con mia madre inferma ed Egidio, naturalmente, fa l’“aiuto muratore”».
Mentre dunque papà Egidio metteva a frutto le sue capacità di “costruttore in proprio”, avete realizzato qualche altro progetto con Roberta?
«Ora [ancora risposta di Gianna, N.d.R.], in alternativa alla borsa lavoro, l’ASL ci sta mandando, per un anno, una ragazza in Servizio Civile (pro terremoto), per una mattina alla settimana, con funzione di amica, per parlare, scrivere a computer, cercare cose interessanti in internet e altro, e tutto questo a Roberta piace molto.
Da anni siamo sempre stati molto impegnati, prima con i genitori anziani, poi ora Egidio anche nella costruzione del nuovo fabbricato, di cui dicevo prima, e abbiamo trovato nel ballo un passatempo serale che piace a tutta la famiglia. Da tre anni, infatti, frequentiamo corsi di ballo liscio insieme a Roberta, dando poi sfogo alle nostre abilità nelle sagre estive della nostra zona e questo ci permette di uscire e frequentare gente nuova con cui stare in compagnia. Adesso, anzi, è Roberta che ci sprona ad uscire, anche quando noi vecchietti preferiremmo stare comodi sul divano a guardare la TV. Il futuro è nelle mani di Dio».
Grazie, famiglia Cavicchi! E se mi permettete una battuta un po’ irriverente, il futuro è certamente nelle mani di Dio, ma anche… nei vostri piedi, perché per voi la vita è un giro di danza!
*Recentemente scomparso, Glenn Doman aveva sviluppato insieme a Carl Delacato un approccio alla cura dei bambini con lesioni cerebrali, diventato poi noto come “metodo Doman”, discusso da più parti. Con gli Istituti per lo Sviluppo del Potenziale Umano, fondati a Philadelphia e rappresentati anche in Italia a Fauglia (Pisa), Doman fece conoscere le proprie idee e i propri metodi, formando i genitori ad applicarli. Si legga anche un approfondimento curato da Giorgio Genta per il nostro giornale.