Questa mia riflessione segue il bell’editoriale di Franco Bomprezzi, pubblicato su queste pagine qualche giorno fa [“Il 4 Luglio dei lavoratori con disabilità”, N.d.R.], che a proposito della condanna dell’Italia per la sua inadempienza sul lavoro dei disabili, auspicava di poter salutare il 4 luglio come il “giorno del lavoratore disabile”.
Quell’articolo chiarisce bene alcuni punti che condivido, quali l’assenza di sanzioni significative per le aziende pubbliche che non assumono o la famosa scappatoia che permette a un’azienda – se si dichiara in crisi – di non ottemperare ai propri doveri nei confronti del lavoratore disabile. Vi veniva però lasciato in ombra un punto che, a mio parere, costituisce la premessa per la realizzazione di quelli elencati sopra. Si tratta, in breve, del concetto di lavoro e disabilità e dell’opinione comune sullo stesso.
Ho personalmente fatto la prova di come la gente concepisca in genere il lavoro come più o meno qualificato, a seconda che a svolgerlo sia un normodotato o un disabile. Chiedendo ad esempio a una persona se è giusto che un laureato debba o meno fare il centralinista o l’operatore di call-center, tutti percepiscono in questo un’ingiustizia sociale da sanare… finché, però, il laureato in questione è un normodotato. Che succede, invece, se è un disabile?
Fresca della mia laurea in Lettere, mi sono recata anni fa presso una nota associazione per disabili, di cui non farò il nome in questa sede. Messa al cospetto di uno dei dirigenti di essa, mi sono sentita aspramente rimproverare per gli studi scelti – Lettere, appunto – scelta per altro attuata prima di avere problemi di vista. Secondo il mio interlocutore, infatti, non era consona a una persona con problemi di vista. Mi è stato poi consigliato di fare un corso di centralino, unico lavoro cui secondo lui potevo approdare.
Un po’ scossa, mi sono recata quindi al Centro Occupazionale del mio quartiere, ove, con assoluta indifferenza per la mia preparazione, mi è stato suggerito anche lì di iscrivermi all’Albo dei Centralinisti e di fare un corso.
Non stiamo parlando delle opinioni di gente comune, ma di un’associazione che dovrebbe tutelarci e dell’ente preposto a trovare un lavoro qualificato. Premetto anche che questo succedeva ben prima della crisi attuale, il che sottolinea come la stessa non sia responsabile della mancata qualifica delle persone con disabilità, visiva e non. Evidentemente, il “pensiero monoblocco” è che ogni disabilità abbia un lavoro per cui è “portata , in barba non solo alla preparazione individuale, ma alle competenze e alle abilità personali.
Ma forse ho incontrato delle “mosche bianche”? Credo proprio di no: ho interpellato, infatti, diversi disabili visivi che hanno, guarda caso, trovato lavoro in un centralino: ebbene, anch’essi hanno sempre riferito di una scarsa, se non nulla attenzione alla promozione in campo lavorativo e di una sottovalutazione della loro competenza. E stiamo parlando di gente che, come me, ha passato gli anni della propria giovinezza a studiare – anche faticosamente, direi – e a prendersi una laurea anche con voti alti (io ho avuto 110), che non solo non usano, ma che nessuno si sogna di far loro usare.
E il Governo del nostro Paese fa forse qualcosa per questo? Assolutamente no, anzi a quel che so, dopo la famosa condanna della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, l’argomento non è stato nemmeno considerato dal Consiglio dei Ministri… Certo, è spuntato qualche spot “aspecifico” delle pari opportunità, una spruzzatina di buonismo tanto per tenere tutti tranquilli.
Finché dunque la società non rimuoverà la barriera che fa del disabile un “lavoratore di serie B”, uno la cui competenza viene scelta dalle associazioni e non da lui stesso, non ci si potrà aspettare che il mondo del lavoro ci ritenga utili, competitivi o delle risorse reali. Ed è per questo che ho deciso di intitolare questo mio pezzo “vietato sognare”. A parte infatti poche eccezioni – e sono davvero poche – alle persone con disabilità non viene consentito di avere una propria identità lavorativa: sono gli altri ad affibbiarla loro.
Un giornalista un giorno arrivò a dirmi: «Peccato che sei ipovedente, saresti stata un’ottima giornalista!». Ma io sono scrittrice e collaboratrice di giornali in internet, e sono grata alla rete per l’opportunità, ma mi domando come si possa avere ancora questa mentalità e quanto essa sia ancora diffusa in un Paese che, in teoria, non dovrebbe fare discriminazioni.
«Ce lo dice l’Europa!»: è questo il mantra che finora è stato usato per diminuire i diritti civili, le risorse, e impoverire una intera classe sociale. E se per una volta, lo facessimo diventare la nostra bandiera?