Gli articoli firmati su queste stesse pagine da Simona Lancioni [“Bioetica e sensi unici” e “La differenza tra bufalo e locomotiva”, N.d.R.], relativi ad alcuni punti del documento del Comitato Sammarinese di Bioetica, intitolato L’approccio bioetico alle persone con disabilità, mi inducono a chiarire la posizione di quello stesso documento e a porre in evidenza come in Italia non sempre sia chiaro il concetto di violazione dei diritti umani delle persone con disabilità.
Innanzitutto quel documento si occupa di un ambito tematico poco conosciuto dal movimento delle persone con disabilità, poiché esso non sembra un’area rilevante per i nostri diritti. In realtà, la bioetica è una disciplina che è alla base non solo delle professioni mediche, ma di tutte le professioni, e chiarire verso questi professionisti chi sono le persone con disabilità e come devono essere trattate, senza violare i loro diritti umani, è un tema fondamentale per rivendicare la nostra piena inclusione nella società e l’appropriato trattamento che ci renda cittadini a pieno titolo partecipi del processo democratico, come cittadini attivi.
Questo è tanto più importante nel momento in cui vi sono posizione mediche e filosofiche che negli ultimi anni hanno dichiarato pubblicamente la necessità di un’eutanasia attiva, uccidendo i neonati con diversità funzionale, con le medesime motivazioni che usavano i nazisti per portare avanti la famigerata Aktion T4. Rimando la completa trattazione di queste tematiche e dei tanti casi di violazione dei diritti umani, nei vari àmbiti di competenza bioetica, allo stesso documento prodotto dal Comitato Sammarinese di Bioetica.
Le questioni che solleva Simona Lancioni nei suoi due articoli sono relative al tema dell’aborto e alla corrispondenza del documento sammarinese alle norme della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità.
Il movimento delle persone con disabilità che si occupano di bioetica ha ben chiare le differenti posizioni. Per quanto poi nel movimento stesso possano esserci poche posizioni contrarie (siamo un movimento non confessionale, ma rispettiamo le posizioni di tutti), la gran parte delle associazioni difende il diritto della donna e della coppia di decidere sull’opportunità di avere un/a figlio/a.
La stessa Convenzione ONU, infatti, riconosce agli articoli 23 (Rispetto del domicilio e della famiglia) e 25 (Salute ) la necessità che le persone con disabilità debbano avere accesso ai servizi di salute riproduttiva (nota è la polemica che molte associazioni di persone con disabilità hanno tenuto con la Santa Sede, documentata ampiamente anche da questo giornale. In questo caso va chiarito che il Vaticano vedeva in quei commi degli articoli citati solo la giustificazione dell’aborto, tra cui quello “terapeutico o eugenetico”, come viene definito nelle legislazioni di molti Paesi, mentre la Convenzione riconosce invece che le persone con disabilità debbano avere accesso ai servizi di salute riproduttiva, che in molti Stati sono loro negati, creando seri rischi per la salute, come ad esempio contrarre l’AIDS per mancanza di adeguate informazioni. Il tema era semplice, si voleva in sostanza garantire «l’importanza per le persone con disabilità della loro autonomia ed indipendenza individuale, compresa la libertà di compiere le proprie scelte», che è il punto n) del Preambolo della Convenzione).
La Convenzione ONU si occupa di come tutelare i diritti umani delle persone con disabilità, in particolare garantendo l’uguaglianza e la non discriminazione. Il documento di San Marino distingue opportunamente la descrizione della persona – per cui utilizza la definizione di «persona con diversità funzionale» (come si inizia a fare ad esempio in Spagna) -, sottolineandone le caratteristiche in maniera oggettiva e neutra, e la descrizione della persona nella società, attraverso la definizione di «persona con disabilità», proprio perché la disabilità è un’interazione tra la caratteristiche delle persone e le «barriere comportamentali ed ambientali, che impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri».
Questa precisazione è necessaria, visto l’uso improprio che spesso viene fatto, anche dalla stessa Lancioni. La definizione di «persone con diversità funzionale» vuole infatti mettere in evidenza che esse hanno un loro modo di funzionamento, non riducibile a un’unica caratteristica (non sanno fare questo o quello), bensì all’insieme delle loro caratteristiche, che si combinano in maniera unica e irripetibile, rappresentando quindi la ricchezza della diversità umana.
Una prima considerazione riguarda la Repubblica di San Marino, dove l’aborto non è legalizzato. Questo sicuramente è stato un dato di cui abbiamo tenuto conto nel documento, anche se in nessun punto è stata presa posizione a favore o contro l’aborto. Questo per mettere in evidenza che il documento non parlava del tema dell’aborto, bensì del tema della discriminazione.
La questione riguarda una clausola contenuta in tutte le legislazioni che hanno legalizzato la pratica dell’aborto: che cioè l’aborto stesso è ammesso fino a un determinato periodo della gravidanza (in Italia fino ai novanta giorni), dopodiché esso viene ammesso – cito per facilità di comprensione la Legge 194/78 (articolo 6) – solo nelle seguenti condizioni: «a) Quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna; b) Quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna».
È proprio l’eccezione contenuta nel punto b) della legge italiana – e in tante altre leggi che legalizzano l’aborto – che le associazioni di persone con disabilità e dei loro familiari, che si occupano di bioetica, ritengono sia una pratica discriminatoria.
Il diritto a scegliere di avere o non avere un figlio non viene messo in discussione, viene altresì denunciato che l’aborto sia ammesso in via eccezionale, e oltre il limite temporale ammesso per tutti gli altri, in presenza di «processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro».
La dizione della legge italiana – come di altre leggi sull’argomento in altri Paesi – usa una definizione così generica (e per certi versi ambigua), che può essere interpretata in maniera fortemente distorta, in assenza di un’informazione completa ed esauriente sull’esatta natura e le conseguenze che quella caratteristica del feto comporta. “Anomalia” e “malformazione”, infatti, sono termini che possono includere qualsiasi forma di caratteristica: da un’osteogenesi imperfetta a una trisomia 21 [sindrome di Down, N.d.R.], a una distrofia muscolare, a un’acefalia.
In realtà, nelle pratiche di counselling genetico, spesso effettuate da strutture private, le informazioni sulle caratteristiche del nascituro vengono fornite in maniera povera (si calcola che un counselling genetico sia svolto in Italia in media in 7 minuti!) e spesso orientata da un punto di vista esclusivamente medico. E quando dico “orientata”, sto parlando del fatto che la donna (o la coppia) riceve un’informazione che già fa una pressione per una scelta in direzione dell’aborto.
Obietta Lancioni che basterebbe formare i medici e tutto si risolverebbe. Nelle conclusioni finali del documento di San Marino, si raccomanda che «si incentivi un programma di formazione per gli operatori della sanità e per coloro che operano in campo bioetico, fondato su un approccio rispettoso dei diritti umani delle persone con disabilità». Questa raccomandazione, però, è decisamente uno degli strumenti da mettere in campo. Infatti il counselling genetico è fatto quasi esclusivamente da medici genetisti la cui formazione non include certo la conoscenza approfondita e in maniera non orientata negativamente – diciamo neutrale – di quale sia la condizione di una persona che nasca con una determinata caratteristica genetica, e come possa vivere e, ancor più, di come saperlo trasmettere a una donna in gravidanza (o a una coppia).
Dove lo apprenderebbero? All’università, nel curriculum di studi ordinario? In corsi di aggiornamento? E chi glielo insegnerebbe? Da molti anni sappiamo che i maggiori esperti, in tema di persone con diversità funzionali, sono le stesse persone con diversità funzionali e le loro famiglie (ed è lo slogan del movimento mondiale delle persone con disabilità: Niente su di Noi senza di Noi). D’altra parte la necessità di fornire un’informazione ampia alla donna (o alla coppia) è contenuta nella stessa Legge 194/78, dove all’articolo 2 si sottolinea che i consultori familiari assistano «la donna in stato di gravidanza: a) Informandola sui diritti a lei spettanti in base alla legislazione statale e regionale, e sui servizi sociali, sanitari e assistenziali concretamente offerti dalle strutture operanti nel territorio; b) Informandola sulle modalità idonee a ottenere il rispetto delle norme della legislazione sul lavoro a tutela della gestante; c) Attuando direttamente o proponendo allo ente locale competente o alle strutture sociali operanti nel territorio speciali interventi, quando la gravidanza o la maternità creino problemi per risolvere i quali risultino inadeguati i normali interventi di cui alla lettera a)».
E continua, l’articolo 2, scrivendo che gli stessi consultori, «sulla base di appositi regolamenti o convenzioni possono avvalersi, per i fini previsti dalla legge, della collaborazione volontaria di idonee formazioni sociali di base e di associazioni del volontariato».
Pare che Lancioni – immaginando chissà quali campagne antiabortiste che il documento di San Marino scatenerà – ignori che in Italia esistono già un numero di realtà in cui operano associazioni per completare le informazioni diagnostiche sulle quali la donna (o la coppia) prende decisioni sulla prosecuzione o meno della gravidanza. Purtroppo, tra queste associazioni raramente vi sono quelle legate alla condizione di disabilità, privando la donna (e la coppia) di quella completezza di informazioni e di esperienze che possono rendere il suo consenso all’aborto realmente informato. Infatti, nessuno nega che l’aborto sia sempre e comunque una decisione difficile e spesso traumatica, che può accompagnare la donna per tutta la vita, e perciò offrirle tutte le informazioni utili a formulare una scelta consapevole e informata, certamente la aiuterà ad affrontare meglio questo evento traumatico.
Anche un’altra dizione della Legge 194/78 va commentata per completezza. L’articolo 1, infatti, recita: «Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio». Dove «cosciente e responsabile», nella legislazione successiva, viene accompagnato dal concetto egualmente importante della responsabilità genitoriale (come nella Legge 328/00 e nella recente Legge che sostituisce la potestà genitoriale proprio con questa dizione [è la Legge 219/12, di cui il relativo Decreto Legislativo attuativo sta affrontando l’iter parlamentare, N.d.R.]).
Vi sono condizioni in cui la scelta dolorosa dell’aborto è frutto di una reale consapevolezza di non potersi assumere – per tante ragioni – una responsabilità genitoriale. La Legge, però, sottolinea che l’aborto oltre il novantesimo giorno di gravidanza è ammesso, «quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna [grassetto nostro, N.d.A.]». Essendo evidente che quando vi sia un pericolo per la salute fisica della donna, l’intervento sia senza discussione (almeno per me, allo stato delle mie conoscenze), la salute psichica della donna è un tema su cui credo vada sviluppata qualche riflessione.
Lancioni porta a motivazione della scelta della donna (o della coppia) di abortire un feto con anomalie o malformazioni, il fatto che avere un/a figlio/a con diversità funzionale «abbia un’incidenza sugli stili di vita dei genitori, e in particolar modo delle madri, molto maggiore rispetto a quella – già molto significativa – che si riscontra nelle nascite di figli/e senza disabilità».
Infatti, ricorda Lancioni, «la famiglia in cui è presente una persona con disabilità è esposta a un rischio di povertà molto maggiore rispetto a quello rilevato nelle “famiglie medie”». E prosegue sottolineando che «nella “famiglia disabile” è molto frequente che almeno un genitore (generalmente la madre) si ritrovi a dover lasciare per sempre il lavoro retribuito per assistere la persona con disabilità, senza ricevere in cambio nessun tipo di indennizzo economico».
Conclude poi ricordando che «Il Gruppo La Cura Invisibile – che porta avanti la battaglia per il riconoscimento giuridico, economico e previdenziale del caregiver familiare -, definisce come “lavoro enormemente usurante” quello del caregiver che si occupa di una persona con disabilità gravissima; talmente usurante, da vedersi ridurre la propria aspettativa di vita fino a 17 anni in meno».
La cosa per me incredibile è che queste denunce – che vengono proprio dalle associazioni di persone con disabilità e dalle loro famiglie, per richiedere adeguati interventi di sostegno, volti a garantire i diritti umani delle persone con disabilità funzionale, rimuovendo ostacoli, barriere e discriminazione che producono disabilità (come recita la Convenzione ONU) -, siano utilizzate per giustificare la scelta di abortire una persona con diversità funzionale.
Ma Simona Lancioni non fa parte del Gruppo Donne della UILDM [Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare, N.d.R.]? E che pensa quel Gruppo della posizione di Lancioni?
La condizione fortemente svantaggiosa di famiglie con persone che vivono con diversità funzionale deriva dalla mancanza di sostegni, per poter garantire adeguatamente una vita serena e il godimento dei diritti umani alle persone con disabilità e alle loro famiglie. Un altro elemento, poi, che influenza la visione di una coppia nel momento in cui riceve l’informazione che il/la nascituro/a ha un’anomalia o una malformazione è il forte stigma sociale negativo che accompagna queste persone. Si pensa cioè a una qualità della vita inferiore, a una sofferenza continua, a un’esistenza senza speranza.
Il “paradosso delle disabilità” – come viene chiamato a livello internazionale – mostra che se si domanda a una persona non ancora disabile (come dicono negli Stati Uniti d’America gli attivisti più radicali) cosa pensa se dovesse vivere una vita con una diversità funzionale, risponderebbe che sarebbe una vita di sofferenze, di patimenti, di rinunce; se però la stessa domanda viene posta a persone con disabilità, sorprendentemente (per gli altri), vi direbbero che, per quanti ostacoli, barriere e discriminazioni esistano, essi sono contenti della loro vita, la cui qualità dipende dalle stesse ragioni di quella dei loro coetanei.
Una riflessione finale merita questa strana competizione tra “diritti” che emerge negli articoli di Simona Lancioni. L’articolo 10 della Convenzione ONU afferma: «Gli Stati Parti riaffermano che il diritto alla vita è connaturato alla persona umana ed adottano tutte le misure necessarie a garantire l’effettivo godimento di tale diritto da parte delle persone con disabilità, su base di uguaglianza con gli altri». Se ci fermiamo a un’ideologica contrapposizione, tipica della bioetica italiana, lacerata tra laici e cattolici, perdiamo di vista la sostanza del problema.
I diritti sono di tutti, e rappresentano un bene comune. Non si va lontano quando si contrappone un diritto ad un altro diritto. I diritti sono tali proprio perché esprimono una necessità larga, razionale e condivisa. La Convenzione riafferma «l’universalità, l’indivisibilità, l’interdipendenza e interrelazione di tutti i diritti umani e le libertà fondamentali e la necessità di garantirne il pieno godimento da parte delle persone con disabilità senza discriminazioni». Non vi sono diritti che si contrappongono ad altri diritti.