Il desiderio di partire tutti dallo stesso punto

di Maria Vincenza Ferrarese, Emilia Napolitano e Rita Barbuto*
Si arricchisce ulteriormente l’ampio dibattito da noi avviato, a partire dal documento intitolato “L’approccio bioetico alle persone con disabilità”, recentemente prodotto dal Comitato Nazionale di Bioetica della Repubblica di San Marino, con la presente opinione espressa dalle principali esponenti di DPI Italia (Disabled Peoples’ International)

Donna in carrozzina fotografata di spalleL’intervista a Luisa Maria Borgia e i successivi interventi di Simona Lancioni e Giampiero Griffo [si veda qui a fianco l’elenco di tali testi, N.d.R.], pubblicati su queste stesse pagine nel luglio scorso e riguardanti il documento L’approccio bioetico alle persone con disabilità, prodotto dal Comitato Nazionale di Bioetica della Repubblica di San Marino, affrontano una questione troppo complessa per essere ridotta semplicemente alla dicotomia “aborto sì-aborto no”.
La complessità, di cui sopra, sta nel senso e nel valore che una persona, sia essa con disabilità o meno, dà alla propria vita ed è questo che determina, a nostro avviso, la funzione più o meno  terapeutica del suddetto aborto.

Il plauso va sicuramente al Comitato Sammarinese di Bioetica, al quale bisogna riconoscere la sensibilità e la volontà di accogliere la disabilità all’interno delle proprie riflessioni scientifiche. E ancor di più di avere compreso, accettato e fatto proprio il modello della disabilità basato sui diritti umani, tanto rivendicato da noi, persone con disabilità, perché l’unico in grado di restituirci la serenità con cui poter superare le barriere culturali e psicologiche che etichettano negativamente la nostra esistenza.
D’altro canto, come dar torto a Lancioni che, da donna, ha paura di una “ventata antiabortista” e delle conseguenze che ne potrebbero derivare? Non dimentichiamo, affatto, il significato che ha avuto per noi donne la Legge 194 del 1978, che ci ha fornito consistenti strumenti di tutela sanitaria, psicologica e sociale, i quali ci hanno condotto verso una profonda emancipazione, che ha fatto sì che diventassimo più consapevoli e presenti a noi stesse e agli altri.
E tuttavia, di fronte a tale discussione, dove è un po’ come un “bere o affogare” – prendersi cioè cura del feto o prendersi cura della donna? – non possiamo esimerci dal renderci conto che la situazione di un aborto “terapeutico” è densa di mille interrogativi, molti dei quali non hanno e non avranno mai una risposta.

Ci chiediamo dunque: cosa fare in questo caso? Una cosa che viene da suggerire è metterci nella condizione di immaginare noi stessi quando eravamo nella pancia delle nostre madri. Il suggerimento è per chiunque, persone con disabilità e non! Crediamo, infatti, che nessuno (o comunque ci è difficile pensare che qualcuno possa avere un’idea diversa) riesca a pensare al mondo senza la sua presenza. Il senso di esclusione e di paranoia che ne deriverebbe avrebbe conseguenze devastanti sul potenziale di un’esistenza che sta per essere alienata e disintegrata!
E allora chi c’è al di fuori del “buco” (così recitava una barzelletta di un bambino nato che voleva rientrare nel ventre materno) che mi tutela contro questa possibilità di dissoluzione di me, feto? E se sono un “brutto feto”, riuscito male, può accadere che invece io abbia il piacere e la curiosità di scoprire il mondo là fuori? O già è tutto predeterminato?
La posizione di Griffo relativa all’aver riconosciuto come discriminatoria la clausola b) dell’articolo 6 della Legge 194/78, dove è lecito abortire dopo il novantesimo giorno, se il feto presenta processi patologici, non deve far temere le donne. Queste ultime non possono a nostro avviso non confrontarsi con se stesse, quando si era un feto!
Per qualche aspetto, il discorso assume sì un carattere antiabortista, ma cosa fare in questo caso? Chi mi dà infatti la sicurezza che io, feto “mal riuscito”, danneggio la salute fisica e psichica di mia madre e chi mi dà la sicurezza che invece mio fratello o mia sorella, fatti nascere perché “sani”, non siano invece tanto deboli e fragili da ricorrere, ad esempio, a sostanze stupefacenti, danneggiando la salute psichica di mia madre che si dà da fare per soddisfare il loro bisogno di dipendenza? E allora come si esce da questa impasse, dove feto e madre “tirano la coperta”, troppo piccola, dalla propria parte?
Le risposte possono essere scelta, responsabilità, consapevolezza, ma anche coraggio, amore, possibilità. Riteniamo, pertanto, che la donna debba decidere per sé e che anche il feto debba essere messo nelle condizioni di dar voce ad ogni suo atomo, ad ogni sua molecola!
In realtà un’unica risposta non c’è, ma c’è un desiderio di partire tutti dallo stesso punto, da un riconoscimento uguale per tutti, a incominciare da quando si è feti, quello che non ci consente il differente trattamento della clausola b) dell’articolo 6 della Legge 194/78!

Ci auguriamo a questo punto che altre donne, con disabilità e non, possano dare il loro contributo, immaginando la loro potenziale non vita! Ma immaginando anche un mondo in cui la disabilità sia una normale condizione di vita, una particolarità della nostra persona, un modo differente di agire e vivere la propria vita, nulla che escluda o neghi il diritto di vivere in libertà e con dignità. È un mondo che tutti dovremmo contribuire a costruire, perché la disabilità – nell’arco di una vita – è un’esperienza che vivranno tutte le persone, come afferma la stessa Organizzazione Mondiale della Sanità.
Pertanto, piuttosto che investire il nostro tempo e le nostre energie in contrapposizione pseudoideologiche, cerchiamo di affrontare insieme le reali questioni relative alla qualità della vita delle persone con disabilità che non dipende di certo dalla condizione soggettiva della persona, bensì dal livello di inclusione che offre la società in cui vive e che dipende anche dalle risorse che si mettono in campo per garantire i suoi diritti umani.
La verità vera è che ancora oggi, purtroppo, nonostante la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità e un gran blaterare di diritti umani, non discriminazione, emancipazione eccetera eccetera, il problema sostanziale è quello di avere servizi adeguati e personalizzati che aiutino le persone con disabilità e le loro famiglie – quindi anche quella mamma che, come dice Lancioni, «sceglie liberamente e consapevolmente di abortire» –  ad autodeterminarsi e quindi a vivere una vita degna di essere vissuta.

Rispettivamente Presidente, membro della Segreteria Operativa e Direttore di DPI Italia (Disabled Peoples’ International). Rita Barbuto è anche Regional Development Officer di DPI Europe.

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