È molto interessante l’ampio dibattito scatenato nel blog InVisibili, di «Corriere della Sera.it», da un testo di Simone Fanti, ripreso anche su queste pagine [“Quei migranti con disabilità”, N.d.R.], una riflessione di un giornalista paraplegico, come è Simone, immedesimatosi nella sorte di altre due persone paralizzate agli arti inferiori, che sono state salvate durante il recente sbarco di migranti a Pachino, in provincia di Siracusa.
È curioso, in particolare, come molti Lettori abbiano fatto il possibile per ignorare il cuore di quel testo, il nocciolo del problema. Ossia un punto di osservazione diverso della realtà, uno sguardo in più, spesso laterale e scomodo, che riporta in primo piano le singole persone, evitando di ragionare solo per slogan, o attorno a numeri e fredde o calde statistiche, ma concentrandosi sull’“invisibilità” della condizione di disabilità.
Si assiste infatti – rileggendo numerosi commenti apparsi nel citato blog – quasi a un tentativo di rimozione emotiva, di ricerca di buone ragioni per non occuparsene, accampando nel migliore dei casi la difficoltà di vivere nella quale si trovano, in questo periodo, anche gli italiani, da Nord a Sud. Di qui le accuse di “buonismo”, e i tanti insulti, davvero inusitati per gravità e violenza, nei confronti di un articolo civile e oggettivo, che non pretendeva certo di fornire soluzioni definitive e complete a un tema complesso e delicato come quello dei fenomeni migratori di massa ai quali stiamo assistendo ormai da tanti anni.
Tanto per cominciare, mi permetto di citare un articolo importante della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, che è Legge dello Stato Italiano [Legge 18/09, N.d.R.] e dunque va applicata al pari delle altre leggi. L’articolo 11 (Situazioni di rischio ed emergenze umanitarie) è breve e chiarissimo: «Gli Stati Parti adottano, in conformità agli obblighi derivanti dal diritto internazionale, compreso il diritto internazionale umanitario e le norme internazionali sui diritti umani, tutte le misure necessarie per garantire la protezione e la sicurezza delle persone con disabilità in situazioni di rischio, incluse le situazioni di conflitto armato, le emergenze umanitarie e le catastrofi naturali». Quindi, la questione è chiusa in partenza: è un obbligo e non un atto di generosità, l’accoglienza umanitaria di persone con disabilità, alle quali va garantita protezione e sicurezza. Tutto ciò che attiene ai successivi atti, dal permesso di soggiorno all’eventuale ritorno al Paese di origine, esula da questa fase, di emergenza umanitaria conclamata ed evidente.
Ma noto da molto tempo come in realtà anche le persone con disabilità italiane abbiano in genere una certa difficoltà (per usare un eufemismo) a solidarizzare con disabili migranti (a proposito: la parola “migranti” è correttissima. Si diventa immigrati quando si regolarizza e si stabilizza la migrazione in un Paese, non quando si arriva su una spiaggia, e probabilmente, come spesso accade, si ritiene questa solo una tappa di un percorso verso altre nazioni, verso il Nord Europa).
Gian Antonio Stella, nel suo insuperabile libro L’orda, racconta in modo superbo il fenomeno della migrazione italiana, e continua ancora adesso a scandagliarne le dimensioni, le cifre, le modalità, le sofferenze. Rimando dunque al sito dedicato, per trovare elementi utili a una riflessione più consapevole. Un po’ di memoria non guasterebbe e ci consentirebbe, forse, di comprendere meglio lo stato d’animo e le speranze di chi arriva qui allo stremo delle proprie risorse umane, economiche e fisiche.
La disabilità, forse è il caso di ripeterlo, è di per sé una molla potente per cercare di scappare da una situazione ambientale ostile, dalla mancanza di cure, di assistenza, dalla presenza di barriere insormontabili, per costruirsi una vita degna di essere vissuta.
È evidente a tutti che non possiamo, da soli, come persone e come Paese, risolvere tutte le situazioni drammatiche legate alla migrazione per disabilità. Ma i numeri parlano di un fenomeno assolutamente modesto, che le nostre strutture sono in grado di affrontare civilmente, nel quadro delle normali attività umanitarie di un Paese come l’Italia che è tuttora fra i primi dieci Paesi del mondo. Proviamo ad abbassare la soglia della paura. Restiamo umani, se ne siamo ancora capaci.