Pochi giorni in Francia, prima a Parigi, poi per poche ore a Clermont Ferrand, prima di tornare a Milano. Una vacanza in automobile, come ho quasi sempre preferito nel corso degli anni. Perché il viaggio è anche un avvicinarsi, e un allontanarsi, cogliendo le sfumature, i paesaggi mutevoli, le facce, gli accenti. Ho atteso, prima di scrivere le mie impressioni, che si sedimentasse quel leggero stato di euforia che mi ha accompagnato, avendo potuto finalmente, dopo tanti anni, assaporare la gioia della “zingarata avventurosa”, con poche mete già prefissate, e il desiderio di libertà e di autonomia, che ancora mi appartiene e mi guida.
Non è la prima volta che affronto Parigi, una città sempre capace di rinnovarsi e di proporsi come una bella donna un po’ in là negli anni, ma piena di charme e di buon gusto. Ho deciso di cominciare da Versailles, il tripudio dell’ancien regime, una città che vive della reggia e dei suoi giardini incredibili. E poi Parigi, a Les Halles, quartiere quasi interamente pedonalizzato, che permette di muoversi a piedi (pardon, a ruote) senza bisogno di utilizzare né metro (scarsamente accessibile) e neppure mezzi di superficie (tutti attrezzati adeguatamente).
Come ho poi riferito altrove, su queste stesse pagine, vado quasi in “pellegrinaggio” al Musée Carnavalet, sulle tracce di Georges Couthon, rivoluzionario a rotelle, di cui resta il cimelio della carrozzina. Poi una giornata intera al Louvre, molte ore ai Magazzini Lafayette, un giro con gli autobus a due piani destinati ai turisti, una splendida ruota panoramica nel luna park dei giardini delle Tuileries, uno sguardo al Beaubourg, molte soste piacevoli nelle brasseries e nei locali che pullulano a ogni angolo di strada. Un vero e proprio flaneur come amano dire i francesi. Ovvero vacanza quieta, senza la smania di vedere tutto, ché tanto in pochi giorni è impresa impossibile.
Poi il ritorno in due giorni, fermandosi a Clermont Ferrand prima di infilare il tunnel del Frejus e trovarsi in Val di Susa, e infine rotolare a Milano, stanco e soddisfatto. Sei giorni in tutto, sufficienti ad assaporare alcune sensazioni indelebili, che provo a trasmettere qui.
Prima di tutto la normalità dell’accoglienza. In Francia si dice ancora personnes handicapés, ma l’espressione non sembra carica di quella connotazione negativa che qui da noi ha stigmatizzato tutti noi, persone con disabilità, al di là delle intenzioni originarie. La cifra prevalente è quella dell’indifferenza, ossia della consuetudine a vivere senza sottolineature né positive né negative la presenza di persone disabili, da sole o in compagnia.
Il livello di accessibilità per chi vive una disabilità motoria è notevole. I posti per la sosta, non numerosi ma molto ampi e ben segnalati, sono sempre liberi: o a Parigi ci sono meno persone disabili, oppure le regole sono più rispettate che in Italia.
Ma è nelle relazioni umane che si avverte ovunque un atteggiamento diverso, gradevolmente simpatico. Dai ristoranti ai musei, la sensazione è che ci sia un’abitudine consolidata alla presenza di ospiti con disabilità, per i quali sono previste procedure di priorità che però non vengono esibite né imposte. Certo è piacevole al Louvre essere accompagnati da una guida che ti consente di trovare l’ascensore giusto, districandosi nel labirintico percorso che si snoda sotto la piramide dell’ingresso (tripudio di modernità). E scivolare in prima fila davanti alla Gioconda, dopo un cenno d’intesa con la custode che deve controllare il flusso ininterrotto di turisti armati di cellulari in funzione di fotocamera (un trionfo di foto inutili).
Indifferenza, dunque. E semplicità. Un Paese, la Francia, che dà la sensazione di muoversi in equilibrio tra normativa e buon senso, riuscendo a trovare quasi sempre la soluzione ragionevole, un mix tra urbanistica, architettura per tutti, e disponibilità umana ad aiutare solo quando serve, senza pressione superflua.
Sarà banale, ma trovare che i marciapiedi finiscono sempre con uno scivolo ampio, lungo e di pendenza assai lieve è cosa che da un lato fa piacere, dall’altro ci rende ancor meno accettabile la scelta italiana di soluzioni a conchiglia, strampalate e ripide, buttate là tanto per fare. I negozi, poi, sono quasi tutti provvisti di un ingresso senza gradino, anche a Clermont Ferrand, città di provincia, tutta salite e discese, essendo in collina, al centro dell’Alvernia.
E ancora, in autostrada le aree di servizio sono tutte confortevoli, con servizi puliti, spazi di sosta ben collocati, ristoranti comodi, non solo a self-service. Mi rendo conto di apparire esterofilo, e me ne dispiace. Eppure la conclusione di questo breve soggiorno è disarmante. C’è uno spread crescente tra la nostra sciatteria, il nostro arretramento culturale, persino nelle relazioni umane, e quanto ho potuto constatare in un Paese che ci assomiglia, e che non è certo l’esempio rigoroso tipico del Nord Europa. Dovremmo forse recuperare un po’ di orgoglio e di spirito di iniziativa, non rassegnarci a un paesaggio fatto di barriere grandi e piccole che ci mortificano e ci impigriscono.
Milano, vista da Parigi, dà la triste sensazione di un’occasione mancata. Forse neppure l’Expo 2015 riuscirà a scuoterci dal torpore. Ma ci dobbiamo provare.
Direttore responsabile di «Superando.it». Il presente testo appare anche, con il titolo “Di ritorno in Italia, lo spread che non si vede”, in «FrancaMente», blog senza barriere di «Vita.it». Viene qui ripreso, con alcuni riadattamenti al diverso contenitore.
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