Se la sessualità delle persone con disabilità in generale è vista come uno “spauracchio”, rispetto a quella delle donne con problemi di disabilità intellettiva c’è un vero e proprio terrore. In tal senso, la notizia denunciata sulle pagine di «Superando.it», rispetto al fatto che in Australia la pratica della sterilizzazione delle donne con handicap mentale non è vietata, è davvero un pugno allo stomaco.
Ovviamente, a giustificazione di tale pratica si porta l’intento di proteggerle da gravidanze indesiderate e dal fatto che non sono in grado di gestire la loro sessualità. Ebbene, se l’intento è davvero quello di proteggere le ragazze, la sterilizzazione non è certo uno strumento idoneo, dato che essa non le tutela dalle conseguenze di eventuali abusi o dalle malattie a trasmissione sessuale che potrebbero compromettere il loro stato di salute fisico e aggravare quello mentale.
Se davvero quindi si vogliono proteggere le ragazze da esiti indesiderati della loro sessualità, occorre lavorare attuando training per aumentare la consapevolezza rispetto ad essa, ovvero insegnando a riconoscere gli abusi sessuali, istruendo su come funziona la procreazione e responsabilizzando rispetto a cosa significhi mettere al mondo un bambino, oltreché fornendo informazioni sulle tecniche di contraccezione e di protezione dalle malattie a trasmissione sessuale (oggi non si parla quasi più dell’AIDS, ma il rischio è ancora molto forte e le donne con disabilità non ne sono immuni… né lo diventano sterilizzandole…).
Il fatto poi che le ragazze con problemi intellettivi non siano in grado di gestire la loro sessualità è un pregiudizio che non trova alcun fondamento, se non in osservazioni estemporanee del comportamento di alcune persone, il quale è stato generalizzato a tutta la popolazione di donne con disabilità intellettiva. Sin dagli Anni Cinquanta, del resto, la Psicologia Sociale aveva evidenziato i cosiddetti fenomeni di “attribuzione causale”, attraverso i quali i comportamenti eclatanti di un gruppo sociale vengono attribuiti indebitamente a tutto un gruppo.
In realtà, la condizione di disabilità mentale non porta in sé e per sé a un comportamento sessualmente disinibito. Al contrario, le ricerche hanno evidenziato il fatto che le donne più a rischio di subire abusi sono proprio quelle che hanno una storia di abusi nell’infanzia o nella pre-adolescenza.
E ancora, è vero che l’incidenza di abusi sessuali sulle persone con disabilità è superiore rispetto a quella nei confronti della popolazione “normodotata”, ma ciò è legato al fatto che esse sono meno consapevoli della loro sessualità, più isolate socialmente e ritenute meno attendibili (le persone non credono alle ragazze con disabilità mentale, quando riferiscono comportamenti abusanti subiti). E i sexual offender sono spontaneamente portati ad assumere come bersaglio dei loro comportamenti abusanti le persone più deboli e più isolate, in quanto si sentono più al riparo dal rischio di denunce.
In conclusione, l’unica strategia – se davvero si vogliono proteggere le persone con disabilità – è quella di aumentare il loro livello di empowerment [“accrescimento dell’autoconsapevolezza”, N.d.R.], anche rispetto alla dimensione sessuale. La conoscenza, infatti, è anche fonte di autostima e di autoregolazione.