«Madre è l’altro nome di Dio
sulle labbra e sui cuori di tutti i nostri figli».
(Dal film Il corvo, 1994, diretto da Alex Proyas).
Ho seguito con molto interesse il dibattito sviluppatosi in questi ultimi mesi in «Superando.it», in merito all’aborto terapeutico. Ho accarezzato per diverse settimane l’idea di infilarmi nel dibattito stesso, ma da buon psicologo, ascoltando il mio “controtransfert” (essendo uomo e disabile), mi ero finora trattenuto. Oggi però, anche stimolato da figure significative del movimento delle persone con disabilità, ho ritenuto opportuno dare ascolto al mio lato istrionico e scrivere qualcosa.
La prima considerazione che mi viene in mente è l’enorme difficoltà di giungere a una conclusione in merito alla questione in termini assoluti, di riuscire cioè a fissare princìpi che abbiano un valore definitivo e assoluto. Da buon vygotskijano (Lev Vygotskij, psicologo d’ispirazione marxista), ritengo che il pensiero sia frutto di processi storico-culturali e sociali e che le idee, così come addirittura i princìpi, acquisiscano senso e valore a seconda del contesto in cui esse prendono corpo e vita.
Succede così che in una società come la nostra, nella quale la violenza sulle donne e il femminicidio sono storia di tutti i giorni, ogni tentativo di interrogarsi sull’aborto e sulle possibilità di riforma di una legge che a sua volta è figlia del suo tempo (1978 [il riferimento è alla Legge 194/78, N.d.R.]), rischi di trasformarsi, attraverso odiose strumentalizzazioni, in un modo per aggravare la condizione della donna, privandola del suo diritto all’autodeterminazione sul proprio corpo. Ciò complica ovviamente il dibattito e lo carica di pathos.
L’altra considerazione è che si vorrebbero investire le donne di una responsabilità che è quasi “divina” e cioè quella di decidere sulla vita o sulla morte di una persona, prima riducendo la scelta di abortire o meno un feto con malformazioni a un fatto privato e intimista e poi riservandosi il diritto di giudicare la donna per la decisione presa.
La domanda che però tutti noi dovremmo porci è la seguente: «Può davvero definirsi scelta, una decisione presa tra l’angoscia di rinunciare a mettere al mondo il figlio sognato e desiderato e quella di far nascere un figlio immaginato come destinato a una vita di sofferenza e cresciuto da una madre che si sente profondamente e intimamente ferita nella sua capacità di essere genitrice (nell’accezione biologica e socioeducativa del termine)?».
A mio avviso no, non può considerarsi una scelta. Questa situazione è un dilemma impossibile, un vicolo cieco dal quale si può uscire non attraverso speculazioni o dichiarazioni di principio, ma solo con processi politico-sociali, psicologici e culturali, che rischiarino le prospettive di vita delle famiglie in cui nasce e cresce un bambino disabile.
Ancora oggi mettere al mondo un bambino con disabilità è un fatto traumatico. Usando una metafora, potremmo equiparare il vissuto delle donne che mettono al mondo dei figli a quello di un bambino che improvvisamente viene scaraventato in acqua e deve disperatamente imparare a nuotare per non morire affogato. Quando una coppia mette al mondo un figlio disabile, deve fare i conti con una duplice sofferenza: quella legata alla disabilità del figlio e quella – il più delle volte negletta – per la propria capacità procreativa menomata (infatti, anche quando la disabilità non è legata a fattori endogeni ai genitori, lo spettro di aver causato la disabilità del figlio aleggia anche per anni nella psicologia dei genitori). E mentre si cerca di riprendersi dal TIR dal quale si è stati investiti, si devono apprendere nozioni di carattere burocratico e sanitario, necessarie a garantire la salute e i diritti del nascituro.
Ora, se davvero la società vuole inserirsi nel dilemma «è giusto abortire un feto disabile?», è bene che lo faccia non con anatemi o dichiarazioni di principio che sanciscano la bontà o meno di scelte di cui altri si fanno carico, ma adoperandosi per rendere meno gravose le scelte che i singoli intenderanno fare. E così dicendo non mi riferisco solo a quanto ancora le persone con disabilità debbano fare, loro malgrado, leva sui propri familiari per condurre la loro vita in modo dignitoso e soddisfacente. Mi riferisco infatti anche alla responsabilità che ogni persona disabile ha verso se stessa, verso le altre persone con disabilità e verso la società intera.
Jean-Paul Sartre diceva: «L’importante non è quel che si fa di noi, ma quel che facciamo noi stessi di ciò che hanno fatto di noi», e quindi la nostra responsabilità è quella di prendere la nostra condizione esistenziale in mano, farci i conti ancora cento, mille volte, e restituirla pacificata al mondo. Tanto più incarneremo la pace interiore di chi sa di avere pieno diritto di stare al mondo, tanto più saranno lontani i tempi delle discriminazioni e di chi vedeva in noi “vite indegne di essere vissute”.