Quell’empatia che nasce da un tocco

di Simone Fanti*
«Ma se dall’altra parte di una persona con disabilità che deve iniziare una nuova vita - scrive Simone Fanti - vi fosse una persona, un fisioterapista che ha fatto un percorso simile?». La storia di Mirella Gavioli, una dei 660 fisioterapisti non vedenti che operano oggi in Italia nelle strutture pubbliche, la quale «percepisce con il tatto - come lei stessa racconta - ciò che gli altri colgono con uno sguardo»
Mirella Gavioli
Mirella Gavioli è una fisioterapista non vedente, che opera nell’Azienda Ospedaliera Carlo Poma di Mantova

Empatia, comprensione, condivisione di una sofferenza… è una questione di pelle. «Ciò che gli altri colgono con uno sguardo, io lo percepisco con il tatto», spiega Mirella Gavioli, quarantenne fisioterapista non vedente (la retinite pigmentosa l’ha privata quasi totalmente della vista) dell’Azienda Ospedaliera Carlo Poma di Mantova. «Spesso – dice – ho la sensazione che la disabilità mi abbia dato una marcia in più per entrare in sintonia con le persone che sto curando. Ecco quindi che le manipolazioni e gli esercizi fisioterapici si trasformano in uno scambio, in un’esperienza alla pari, dove non esiste una persona che guida e una che ubbidisce passivamente».

Già, la fisioterapia. Chi è diventato disabile per un trauma o una malattia quasi sicuramente è passato per un centro di riabilitazione. Per qualcuno si è trattato di riattivare alcune funzioni di un braccio o di una gamba, per altri invece è stata una “scuola di vita”, un luogo dove ti vengono insegnati, per la seconda volta, gesti quotidiani che non puoi compiere come prima.
Tante volte la disabilità da trauma o malattia è tale che ti sembra di rinascere e come un bambino ti tocca la fatica di iniziare da zero. Gesti semplici e ripetuti migliaia di volte senza pensarci che diventano ignoti: una semplice doccia diventa una questione di equilibrio precario, quando, impedito nei movimenti di gambe e bacino, devi spostarti dalla sedia a rotelle al seggiolino della doccia a forza di braccia. Oppure quanto un’emiplegia ti blocca un lato e devi imparare a mangiare con una mano sola. E dall’altra parte ci sono loro, i fisioterapisti.
Persone che a volte si mostrano dure e lo fanno per obbligarti a reagire. A volte comprensive, persone con cui puoi parlare, sfogarti, cercare di risolvere i tuoi dubbi esistenziali. Anche se talvolta dubiti che ti possano comprendere fino in fondo. «Io sono qui ricoverato e tu, che mi curi puoi uscire a svagarti sulle tue gambe funzionanti…»: questi i pensieri di chi, frustato dalla fatica della disabilità, deve iniziare una nuova vita.
Ma se dall’altra parte ci fosse una persona che avesse fatto un percorso simile? Negli otto mesi di degenza ospedaliera nel 2001 non ho avuto a che fare con fisioterapisti disabili. Ma posso facilmente immaginare che questi professionisti, accanto alla riabilitazione fisica, possano fornire quella “spalla di confronto” necessaria all’inizio di un lungo percorso: quella “diversamente vita” delle persone con disabilità.

«Noi professionisti con disabilità visiva, ma non solo – prosegue Gavioli – noi che abbiamo per scelta più o meno indirizzata, a che fare con altri soggetti portatori di altre disabilità più o meno gravi o più o meno permanenti, possiamo garantire tanta più sicurezza e considerazione: noi abbiamo saputo accettare e mettere a disposizione la nostra condizione di disabilità, a rinforzo degli stati d’animo altrui. Chi meglio di una persona che è portatore di una disabilità, infatti, può capire un’altra persona, usando non solo il proprio esempio concreto, ma le proprie abilità a supporto del migliore dei recuperi possibile?».
Forse, però, non è solo questione di disabilità. Ma di personalità. Di modo di porsi e di mettersi a disposizione del paziente che in quel momento si sta trattando. Valorizzare cioè quell’«empatia che si crea tra persone che si comprendono e si pongono sullo stesso piano e non su piani di superiorità e inferiorità», continua Gavioli. «La stima e la fiducia poi vengono spontaneamente perché non si può essere aiutati senza aiutare, e viceversa, ciascuno di noi, sulla base delle proprie esperienze, può sempre offrire qualcosa di costruttivo, se espresso come tale e non come autocompatimento».

I fisioterapisti ipo e non vedenti in Italia sono circa 660 e operano nella maggior parte dei casi in strutture pubbliche (si legga anche, in «Corriere della Sera.it», di Wolfgang Fasser, L’uomo che cura i bambini con la musica del bosco). «Ma il loro numero – conclude Gavioli – è destinato a ridursi da un lato, e questo è un bene, grazie alla tecnologia che apre àmbiti lavorativi differenti, dall’altro, e questo è un male, perché per diventare fisioterapisti oggi occorre passare attraverso i percorsi universitari e gli atenei non sempre spalancano le porte a chi ha una disabilità. Peccato, perché il nostro è un mestiere che ti insegna e che ti impone di attuare quanto possibile per valorizzare e potenziare le abilità residue. E quale esempio migliore ci può essere per un disabile che deve imparare a sfruttare al meglio ciò che non è stato compromesso?».

Il presente testo, qui riproposto con alcuni riadattamenti al diverso contenitore, è già apparso in “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it», con il titolo “Cecità, fisioterapia e quell’empatia che nasce da un tocco”. Viene qui ripreso per gentile concessione dell’Autore e del blog.

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