Sembra che nel dibattito in tema di aborto terapeutico, che si è svolto recentemente sulle pagine di «Superando.it», e che ha preso le mosse dalla posizione assunta dal Comitato Nazionale di Bioetica della Repubblica di San Marino (d’ora in poi CSB), nel documento intitolato L’approccio bioetico alle persone con disabilità, alcuni aspetti siano stati messi a fuoco, mentre altri, sebbene rilevanti, siano rimasti in ombra.
Tra quelli rimasti in ombra, ce n’è uno in particolare che merita un ulteriore approfondimento: l’immagine della donna che scaturisce dalle proposte avanzate dal CSB in tema di aborto.
Prima però di sviluppare questo argomento, riassumiamo, per chiarezza espositiva, la posizione del CSB sul tema in questione. Il CSB definisce l’aborto terapeutico come una pratica finalizzata ad «elimina[re] un soggetto che spesso non è benvenuto» (p. 34), e ispirata da più che deprecabili motivazioni eugenetiche. Il CSB denuncia quindi, come comportamento discriminatorio nei confronti delle persone con disabilità, che l’aborto sia ammesso in via eccezionale, e oltre il limite temporale dei tre mesi ammesso per tutti gli altri embrioni/feti, in presenza di «processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro» (Legge 194/78). Pertanto chiede che «la legislazione sia emendata per porre fine alla discriminazione fondata sulla disabilità quale eccezionale terreno legale per l’aborto» (p. 48). Il CSB, infine, chiede che alla coppia venga offerta «una corretta e completa forma di counselling» nella quale sia prevista anche «la presenza di genitori e/o membri di associazioni, competenti e formati» sulle specifiche diversità funzionali (pp. 34-35).
Iniziamo il nostro commento riflettendo sul processo decisionale da cui sono scaturite le proposte del CSB. L’aborto (sia in termini generali, sia rispetto a quello terapeutico) è un tema che riguarda le donne, la loro vita, il loro corpo, la loro volontà di diventare madri oppure no. Pertanto è corretto ritenere che, se si parla di aborto, le donne debbano essere coinvolte nei processi decisionali che intendono apportare modifiche in questa materia.
Le istanze avanzate dal CSB contengono un giudizio negativo dell’aborto terapeutico e, implicitamente, delle donne che lo praticano, e una proposta finalizzata a limitare la libertà di scelta della donna in questo campo. A questo punto è inverosimile ritenere che se le Associazioni e i gruppi femminili e femministi fossero stati coinvolti nel processo decisionale che ha dato questi esiti, avrebbero sottoscritto una simile interpretazione della pratica abortiva. Questo significa che il CSB, e le Associazioni di persone con disabilità che lo hanno supportato, nel cimentarsi con questo tema – che riguarda in primo luogo le donne – proprio le donne non hanno coinvolto. Come mai? Evidentemente costoro ritengono di poter disporre della vita e del corpo delle donne, senza dover nemmeno chiedere il parere o il permesso di queste ultime.
Chiarito questo aspetto, entriamo nel merito dei contenuti delle proposte avanzate dal CSB, e cominciamo con la definizione di aborto terapeutico.
Per la Legge, e per le donne, l’aborto è uno strumento di autodeterminazione della donna. La sua legalizzazione si basa sull’assunto che la donna è una «persona in atto», mentre l’embrione/feto non è ancora una persona; è, caso mai, una «persona potenziale». Questo assunto comporta che i diritti della «persona in atto» (la donna), non possano essere limitati da quelli di un “qualcosa” che non è ancora un “qualcuno” (l’embrione/feto). Ed è questo il motivo per cui l’aborto non può essere definito come omicidio, né è possibile considerare assassine le donne che lo praticano.
Invece questo è esattamente ciò che fa il CSB quando, nel definire l’aborto tardivo, usa l’espressione «elimina[re] un soggetto che spesso non è benvenuto». Nella sostanza il CSB non considera l’aborto come lo strumento attraverso il quale la donna può scegliere di non diventare madre, ma come il mezzo attraverso cui può legalmente scegliere chi vuole ammazzare. Se l’aborto non è uno strumento di autodeterminazione, ma uno strumento contro qualcuno, ne consegue che qualunque donna abortisca è ipso facto colpevole di aver nuociuto a qualcuno. Non ci sarebbe niente da eccepire, se l’embrione/feto fosse già un “qualcuno”, ma – lo ripetiamo, perché è questo il nodo centrale -, l’embrione/feto non è una persona.
Nell’avanzare poi la propria proposta di abbassare a tre mesi i limiti di tempo per praticare l’aborto terapeutico, il CSB utilizza una cosiddetta “narrazione diversiva”, ovvero quella narrazione in cui si devia l’attenzione su aspetti marginali del tema trattato, insinuando che questi siano centrali.
Il soggetto dell’aborto è la donna? Il CSB sposta l’attenzione sull’embrione/feto, suggerendo che sia quest’ultimo il “protagonista”. L’aborto è uno strumento di autodeterminazione della donna? Il CSB lo trasforma in uno strumento di eterodeterminazione degli embrioni/feti con anomalie e malformazioni. I limiti temporali sono stati fissati in funzione della donna perché lei, e solo lei, è una “persona in atto”, e anche perché l’aborto riguarda il suo corpo? Altra deviazione: i limiti vanno modificati in funzione del/lla nascituro/a, sebbene del suo statuto ontologico non vi sia alcuna certezza. Anche in questo caso, quindi, si tentano di limitare i diritti della “persona in atto”, contrapponendole quelli, solo presunti, della “persona potenziale”. Perché?
Alcune persone con disabilità si sono identificate con l’embrione/feto e si sono spaventate all’idea di essere “disintegrate” (si veda: M.V. Ferrarese, E. Napolitano, R. Barbuto, Il desiderio di partire tutti dallo stesso punto, in «Superando.it», 21 agosto 2013). E tuttavia basterebbe riflettere qualche secondo per rendersi conto che nessuna “persona in atto” (né disabile, né non disabile) potrà mai subire alcun danno dalla pratica abortiva. E questo è un fatto incontestabile. Volendo dunque proporre misure tese a limitare la libertà di scelta della donna, sarebbe necessario produrre argomentazioni attinenti alla realtà e non alla fantasia.
Chi ha elaborato questa proposta sostiene di riconoscere e rispettare la volontà della donna, e che le donne non debbano temere i provvedimenti in questione, ma mentre con l’attuale disciplina giuridica dell’aborto la donna può disporre di sé anche dopo i primi tre mesi, se la proposta del CSB dovesse trasformarsi in Legge, dopo tale termine – che la donna sia consenziente oppure no è del tutto irrilevante – sarebbe comunque costretta a portare avanti anche eventuali gravidanze indesiderate. Chi ha deciso questo? Le donne? No, il CSB e alcune persone con disabilità.
Ma cosa vuol dire obbligare una donna a portare avanti una gravidanza indesiderata? Il messaggio sotteso è inequivocabile: «Il tuo corpo non è tuo, il tuo corpo è della comunità, tu sei solo un’“incubatrice”, la tua volontà non conta niente, tu stessa non conti niente».
Se anche tale messaggio fosse incastonato in una norma dello Stato, quante sono, in concreto, le possibilità che tale norma venisse rispettata? Basse, molto basse. Per averne conferma basta documentarsi. Nei luoghi dove l’aborto è illegale, o dove, per un qualunque motivo, non è possibile fare ricorso ai servizi pubblici, le donne cercano, e trovano, altre vie per praticarlo. Proprio in Italia, dove l’aborto è stato legalizzato, la massiccia presenza di ginecologi obiettori di coscienza sta spingendo le donne verso l’aborto clandestino (si veda, a tal proposito, un’inchiesta realizzata da Maria Novella De Luca per Le inchieste de «L’Espresso», 194, così sta morendo una legge. In Italia torna l’aborto clandestino, del 23 maggio 2013).
Entrando poi ancor più nello specifico, proviamo a riflettere sulle condizioni di vita delle madri di figli o figlie disabili. Per capire come vivono queste donne, è necessario sapere che in molti Paesi – e in Italia in particolare – non vi è un’equa distribuzione dei lavori domestici: la cura della casa, dei figli/e, delle persone con disabilità e degli anziani/e è ancora in larga parte demandata alle donne. Qualcosa, lentamente, sta cambiando, ma anche nei casi in cui gli uomini sono collaboranti, difficilmente la compartecipazione tra uomini e donne a questi lavori arriva a livelli paritetici.
Nel nostro Paese, ancora oggi, il welfare si regge in larga parte sul lavoro non retribuito delle donne e a ciò si deve aggiungere una riflessione sull’ambivalenza del lavoro di cura. Per alcune donne il lavoro di cura è un’attività di così alto valore da costituire una convincente risposta alla propria domanda di senso. Ed è proprio in ragione di quel senso che riescono a reggere ritmi di lavoro all’apparenza improponibili. Molte madri di figli con disabilità gravissima, ad esempio, prestano un’assistenza onerosa (il lavoro di cura diventa più pesante con la crescita della persona disabile), continuativa (dormono poco, e anche quando dormono stanno in allerta, non conoscono ferie, permessi, festività) e prolungata nel tempo (dieci, venti, trenta, quaranta, cinquant’anni, finché ce la fanno, finché non muoiono, o finché non muore il/la figlio/a disabile di cui si curano).
Ma per vivere così, per reggere questi ritmi, occorre una gran forza fisica e altrettanta forza psicologica. Per vivere così, occorre essere “colonne”. Fatto sta che non tutte le donne sono “colonne”, alcune di esse sono fragili come “fili d’erba”, e quel tipo di vita ha su di loro un effetto devastante. Lasciate dai loro compagni – sono ancora tanti, infatti, gli uomini che fuggono davanti alla disabilità della prole -, costrette a lasciare il lavoro retribuito per prestare assistenza, dovendosi occupare anche di qualche persona anziana, pur amando le persone di cui si curano, vivono costrette in povertà, passando da uno stato depressivo all’altro. Si cercano e non si trovano. Perché in questo sistema – dove lo Stato non c’è e dove talvolta anche le reti informali vacillano o non ci sono proprio – molte donne si ritrovano a dover gestire in perfetta solitudine compiti onerosissimi.
È vero, non tutte le disabilità sono uguali, e questi sono i casi estremi. Ma se dovesse passare la proposta del CSB sulla riduzione dei limiti di tempo per praticare un aborto terapeutico, le possibilità che il “filo d’erba” potesse dire «io non me la sento», «io non ho la forza di affrontare tutto questo», sarebbero drasticamente ridotte. E anche qui: chi ha stabilito che tutte le donne sono “colonne”? Chi ha deciso che le caratteristiche della donna, e il contesto ambientale/relazionale in cui vive, non hanno alcuna rilevanza? Le donne? No, il CSB ed alcune persone con disabilità, sempre le stesse.
Eppure sarebbe fuorviante riflettere su questo tema soffermandosi solo sull’aspetto della sostenibilità dei carichi assistenziali. Infatti, non tutte le situazioni possono essere interpretate in questi termini. Per capirlo bisogna fare un passo indietro e riprendere la riflessione sull’ambivalenza del lavoro di cura.
Abbiamo detto che per alcune donne il lavoro di cura rappresenta una risposta a una personalissima domanda di senso. Ora dobbiamo aggiungere che per altre donne il lavoro di cura non assolve a questa funzione. Anche se hanno dei/lle figli/e, e anche se queste donne non ritengono di doversi annullare per essi/e. Non c’entra nulla il fatto di avere o non avere la forza per curarsi di loro, semplicemente non vogliono vedere la propria vita ridotta alla sola dimensione assistenziale e occuparsi della prole disabile, espone proprio a questo rischio.
Sono egoiste o egocentriche? Ci porremmo questa domanda se fossero uomini? Non dobbiamo scordare che se procreare è un dato biologico, la maternità e la paternità sono dati squisitamente culturali e, in quanto tali, soggetti a trasformazione. Pertanto, possiamo semplicemente concludere che non tutte le donne trovano nella cura una coordinata esistenziale, e che esse hanno difficoltà a vivere rapporti nei quali, per esserci, devi annullare te stessa. Ritrovarsi a fare la doccia alle tre di notte – perché quello è l’unico spazio per sé di cui alcune madri di figli/e disabili dispongono – solleverebbe in loro una dolorosissima questione di identità.
Ma il CSB si è posto il tema della volontà della donna? Se lo è posto in termini paternalistici, dando per scontato che se una donna non vuole diventare madre di un figlio con disabilità, la sua volontà sia viziata da un pregiudizio riguardo alla disabilità, e che, se questa donna fosse opportunamente “rieducata”, cambierebbe parere. Che i pregiudizi nei confronti delle persone con disabilità siano diffusi non è messo in discussione, ma che tutte le situazioni possano essere spiegate in termini di pregiudizio è, a nostro avviso, tutto da dimostrare, anche perché è lo stesso mondo della disabilità a dare, su questo tema, indicazioni contrastanti.
Provando infatti ad ascoltare cosa dicono le persone con disabilità (soprattutto quelle interessate da patologie geneticamente trasmissibili) riguardo alla possibilità di trasmettere la propria patologia a un/a figlio/a, viene alla luce una realtà alquanto frastagliata. C’è chi dice: «Certo, perché no? Io sono felice, e anche mio figlio lo sarà». Ma c’è anche chi dice: «Non so, non credo, io sto bene, ma è una “vita in salita”, vorrei che almeno ai blocchi di partenza ci fossero uguali condizioni. Certo, non è una garanzia di felicità… ma sapere già che gli stai piazzando “una salita” davanti… beh, non so se me la sento». E c’è infine chi afferma: «No! Assolutamente no!». Ed è un no che viene da lontano. Sembra quasi che abbia “preso la rincorsa”. Vorremmo approfondire, vorremmo capirle meglio le ragioni di quel no. Ma intuiamo subito che non ci sono margini di trattativa. Chi ha ragione? Tutti e tutte! Ognuno e ognuna di loro ha espresso la propria opinione, attingendo al proprio vissuto di persona con disabilità. Ognuno e ognuna di loro è competente in tema di disabilità. Ed è proprio per questo che non si possono accettare le proposte finalizzate a limitare la libertà di scelta su una materia così delicata e controversa.
A parere di chi scrive, infatti, la proposta del CSB non impedisce solo alle donne di autodeterminarsi, essa pone limiti anche a quegli uomini e a quelle donne disabili che, attingendo alla propria esperienza di disabilità, hanno maturato, riguardo a questo tema, un orientamento diverso da quello del CSB.
E ancora: perché le donne dovrebbero ascoltare solo una “campana” e non tutte e tre? Perché il CSB ritiene che la propria “campana” sia più autorevole delle altre? Perché vuole imporla a tutti e tutte?
Un’attenta riflessione va poi riservata alla proposta di offrire alla coppia che deve decidere se abortire una «corretta e completa forma di counselling» nella quale sia prevista anche «la presenza di genitori e/o membri di associazioni, competenti e formati» sulle specifiche diversità funzionali.
Su questa proposta le osservazioni sono di due tipi. La prima: l’aborto riguarda la donna, il suo corpo e la sua decisione riguardo la maternità: cose personalissime. Per quale motivo lei dovrebbe accettare di parlare di queste cose personalissime con le persone con disabilità? Le persone con disabilità accampano qualche diritto sul corpo della donna? Se così fosse, allora dovrebbero dimostrare i fatti che ne costituiscono il fondamento. Finché non lo avranno fatto, dovrebbero smettere di avanzare pretese in tal senso.
La seconda: chi definisce l’aborto come una pratica finalizzata ad «elimina[re] un soggetto che spesso non è benvenuto» vuole informare la donna od orientare la sua scelta? Tra informare e orientare la scelta, infatti, la distanza si misura in “anni luce”. Chi informa mette a disposizione il proprio sapere e la propria esperienza con onestà intellettuale per aiutare qualcuno/a. Chi vuole orientare la scelta, invece, seleziona le informazioni in funzione dei propri interessi.
Si ripropone, a tal proposito, il tema della volontà della donna. Per il CSB la donna che vuole abortire è incapace di capire e decidere da sola quale sia il suo bene, e dunque va “rieducata”. Cosa ne sanno loro di quale sia il bene della donna? Ovviamente niente, per loro il bene della donna coincide sempre, guarda caso, con gli interessi delle persone con disabilità presenti nella commissione per l’interruzione volontaria di gravidanza. E se invece fossero proprio queste ultime a dover essere sottoposte a una “rieducazione” finalizzata a riconoscere e a rispettare i diritti, il corpo e la volontà della donna?
Esclusa dai processi decisionali che la riguardano, colpevolizzata se compie una scelta abortiva, ridotta a “incubatrice”, limitata nelle possibilità di scelta, esposta al rischio di dover portare avanti gravidanze indesiderate, trattata come incapace di decidere autonomamente quale sia il suo bene: è questa l’immagine della donna che scaturisce dalle proposte avanzate dal CSB in tema di aborto. E no, non è una bella immagine!
In conclusione la domanda è: il CSB, e le associazioni di persone con disabilità che lo supportano, credono davvero che trattare le donne in questo modo aiuterà il percorso di inclusione delle persone disabili nella società?
Per approfondire ulteriormente, oltre ai vari testi già da noi pubblicati sulla materia, di cui a fianco pubblichiamo l’elenco, segnaliamo anche Elena Tebano, Test genetici per avere figli disabili uguali ai genitori, in La 27ª ora, «Corriere della Sera.it», 2 settembre 2013.