Ah, le donne! Che capacità organizzativa, che abilità a tenere sotto controllo più fenomeni contemporaneamente, che attitudine ad amministrare la comunicazione e che versatilità nel passare da un contesto all’altro. E poi tutta la sequela di abilità legate al loro senso di maternità.
Sarà che ne sono sensibile al fascino e sarà che per affascinarmi dovrò pur aver visto del buono. Noi uomini, in linea di massima, non siamo così sopraffini. Noi usiamo la forza. La conformazione fisica ci ha abituati a farlo e la storia ce ne ha dato l’autorità. L’autorità è diventata diritto e il diritto sopraffazione. La sopraffazione si è rivestita di violenza ed eccoci a coniare il neologismo femminicidio e a elaborare il concetto di violenza di genere.
Le donne con disabilità non ne sono immuni: la disabilità può destare pietà, ma non rende invulnerabili alla brutalità umana. L’8 ottobre ad Empoli (Firenze), se ne parlerà in un convegno ad hoc [si legga la presentazione dell’iniziativa nel nostro giornale, N.d.R.].
Violenza di genere, si chiama così quella violenza perpetrata a danno delle donne (e dei minori) e, secondo la prima definizione istituzionale – dalla Dichiarazione ONU di Vienna del 1993 – rappresenta una violazione dei diritti umani. L’ONU, con la successiva Dichiarazione 48/104 del 20 dicembre dello stesso anno [“Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne”, N.d.R.], ha sancito che violenza contro le donne significa «ogni atto di violenza fondata sul genere che abbia come risultato, o che possa probabilmente avere come risultato, un danno o una sofferenza fisica, sessuale o psicologica per le donne, incluse le minacce di tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, che avvenga nella vita pubblica o privata». Questa violenza è di genere perché legata appunto al genere femminile.
Secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), il 35% delle donne al mondo è vittima di violenza, i cui artefici sono per lo più fidanzati e mariti, e il 38% di tutte le donne uccise è vittima del compagno. Nella “civilissima” Europa il 25% delle donne ha subito abusi dal proprio partner e in Italia la percentuale è del 14,3, da un’indagine Istat ormai datata (2006). Dalla stessa indagine, nel nostro Paese 6.743.000 donne fra i 16 e i 70 anni sono state vittima di violenza.
Le donne con disabilità sono messe peggio. Non si trovano dati precisi ma dovremmo essere prossimi a valori del 40%, anche se per Ana Peláez Narváez, responsabile del Comitato Donne dell’EDF (European Disability Forum), la percentuale potrebbe essere maggiore.
Le somme si tirano in fretta accostando i dati sulle molestie sulle donne in Europa a quelli sulla discriminazione delle donne disabili nel continente (16% della popolazione). Un esercizio poco ortodosso sotto il profilo numerico, ma che le donne con disabilità soffrano una duplice discriminazione non c’è bisogno l’affermi la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità all’articolo 6, poiché s’intuisce da sé.
È lo stigma della diversità: “ti schiaccio perché sei femmina e pure disabile”. O viceversa. Sei debole, dunque inutile, quindi ho diritto a prevaricarti.
Per saperne di più, quindi, si presenta interessante il citato convegno di Empoli dell’8 ottobre su Violenza di genere e disabilità, un pomeriggio di dibattito organizzato da un’Associazione [Frida – Donne che sostengono le Donne, N.d.R.] che vanta l’avvio, nella primavera scorsa, del Progetto Aurora, uno sportello focalizzato sulla violenza sulle donne con disabilità, dov’è possibile chiamare sette giorni su sette.
Ora, cercando di evitare luoghi comuni, a me tutto questo richiama un pensiero. Un pensiero forte: chi è il debole? Chi usa la forza perché non è in grado di riconoscere nell’altro un’utilità – una dignità -, oppure la persona fragile che fatica a trovare spazio in una collettività che vuole escluderla? Due debolezze differenti. Una decisamente ottusa.