Siamo quasi arrivati alla fine del mio personale giro del mondo a nuoto. Sto infatti per partire verso uno dei posti più belli al mondo, il Chiapas, una delle trentadue entità federali del Messico, uno Stato ricco di tradizioni, etnie e religioni.
Si tratta di una regione situata nel sud-est della Repubblica Federale del Messico, tra l’Oceano Pacifico e le verdeggianti rovine Maya della città di Palenque, passando per la colorata San Cristobal de Las Casas, proprio sopra il confine con il Guatemala, come fosse la “coda” degli Stati Uniti del Messico.
Stato prevalentemente montuoso, il Chiapas, è potenzilamente una delle zone più ricche dell’America Centrale: infatti, la sua produzione agricola è notevole, particolarmente per quanto riguarda il caffè e il mais, pianta simbolo della stessa cultura Maya. Questo, però, è un territorio attraversato da gravi conflitti sociali che causano l’emarginazione della popolazione più debole, e in particolar modo delle persone con disabilità: è proprio questo il motivo per il quale ho scelto questa regione, ricca non solo di risorse minerarie e agricole, ma anche e soprattutto di umanità.
Vivere da disabile in una terra come il Chiapas, come in molti altri – troppi – Paesi del mondo, non è facile: sono innumerevoli le difficoltà e le fatiche che quotidianamente si devono affrontare, difficoltà dovute, quasi sempre, a un’organizzazione della società che non tiene conto dei bisogni più elementari di una minoranza, che infatti, il più delle volte, rimane inascoltata.
Da molti anni, ormai, porto avanti una battaglia con la quale cerco di sensibilizzare l’opinione pubblica mondiale su una questione importantissima, ma, paradossalmente, pressoché ignorata dalla maggior parte dei Governi, e cioè l’abbattimento delle barriere architettoniche, sociali e mentali che precludono l’integrazione delle persone con disabilità nel tessuto sociale.
Oggi il mondo scientifico si è dotato, dopo anni di studi e di ricerche, di potentissime conoscenze, grazie alle quali sono stati sviluppati sistemi che hanno permesso, in alcuni casi, di annullare la disabilità fisica: peccato, però, che, ancora oggi, rimangano chiusi nei cassetti dei maggiori centri di ricerca al mondo. È perciò arrivato il momento di liberarli e renderli accessibili attraverso la loro industrializzazione.
Mi chiedo spesso il motivo di questo assurdo ritardo che immagino costi molto agli Stati, ritardo che non si limita a mortificare le persone con disabilità, ma che blocca anche un intero comparto comprendente rivenditori e produttori. Senza considerare, poi, l’assurdo divario che si viene a creare tra la scienza e il mondo della disabilità che invece, nell’interesse di tutto il mondo civile, dovrebbe poter usufruire di ogni progresso derivante dalla ricerca.
Tutti noi – almeno credo -, perseguiamo un obiettivo comune. Desideriamo infatti che, a livello globale, si riesca a raggiungere un accordo su nuove azioni concrete per prevenire e un giorno mettere fine alla “prigionia” delle persone con disabilità, liberando la nostra società da tutte le barriere che impediscono, ancora oggi, i diritti fondamentali, come la mobilità, l’ indipendenza, l’istruzione, il lavoro. In tre parole: il diritto di cittadinanza.
E l’articolo 4 della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità (Obblighi generali) afferma che «gli Stati Parti si impegnano a garantire e promuovere la piena realizzazione di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali per tutte le persone con disabilità senza discriminazioni di alcun tipo sulla base della disabilità».
Ogni persona ha una sua storia. Una storia che può essere modificata, cambiata, migliorata. Anche in un momento storico difficile come questo. Il nostro errore più grave credo possa essere cercare di destare in ognuno proprio quelle qualità che non possiede, trascurando di coltivare quelle che ha: il futuro è già qui, è solo distribuito male.