Cara mamma, di te so veramente poco. Sei finita sui giornali per un avvenimento orribile, hai accoltellato tuo figlio undicenne a Città di Castello, qualche giorno fa. So veramente poco, eppure mi sei entrata nel cuore, e non solo per quelle poche ore in cui sei stata “una notizia”. Ho cercato se su di te – e su tuo figlio, autistico come il mio – ci fossero altre notizie, ma non ce ne sono. Sei scivolata nel gruppo delle “notizie vecchie”, ed è per questo che ho deciso di parlarti solo ora.
Chissà se leggerai questa mia lettera. Credo di no, eppure io sento il bisogno di scrivertela, per me, oltre che per te. Pensavo di riuscire a fare su di te magari un articolo razionale, di quelli che piace tanto citare nelle trasmissioni televisive. Però non ci riesco, perché tu sei una mamma esattamente come me, solo più fragile.
Hanno detto che soffrivi di crisi depressive, e che eri in cura per questo. Mi è venuto da sorridere, perché solo io e le altre mamme di ragazzi “speciali”, ragazzi autistici, sanno che è impossibile prendersi davvero cura di sé.
Mi sono chiesta se chi ti curava sapesse o meno che un ragazzino, ma anche un ragazzo autistico, non comprenderà mai la frase «la mamma è stanca». Non la comprenderà nemmeno all’una o alle due del mattino. Una mia amica, anche lei una “mamma speciale”, l’altro giorno mi ha detto: «C’è stato un vantaggio ad avere avuto la febbre: ho potuto dormire otto ore!». Mi sono ritrovata ad invidiarla, otto ore, un sogno per tutte noi.
Tu sai cosa voglio dire, mia cara. Quelle notti passate a sperare che finalmente venisse la calma, magari con la paura che i vicini protestassero, che ti avvicinassero per dirti «che non si può», che «deve cercare di controllarlo, signora!». Come quando l’altro giorno il mio vicino ha detto che Giovanni, mio figlio, aveva tirato i kiwi nel suo terrazzo e lo ha detto a me esattamente con un tono che significava: «È colpa tua, tu dov’eri?». Proviamo a spiegarglielo insieme che non ci riusciamo ad essere presenti e attente per tutto il giorno e anche per buona parte della notte?
Dicono che non avevi mostrato grossi segni di problemi, e anche qui mi è venuto da sorridere, un sorriso amaro. Ma cosa dobbiamo dire, miei signori? Io amo mio figlio, eppure quelle sere in cui lui non dorme e urla, viene in camera mia continuando a urlare, se qualcuno mi telefona, dico solo che sono un po’ stanca. E mai nessuno, di giorno o di notte, al di là di chi in qualche modo è pagato per farlo, che si offra di venire un poco a sollevarci, a prendersi il figlio e a permetterci una passeggiata da sole, o anche solo la visione indisturbata di un film.
E lo so bene, per avere avuto un congiunto con la depressione, come si sta quando si è depressi, e si sente di non resistere un minuto di più.
Magari tu avevi letto – come me qui a Roma – che l’assistenza domiciliare è a rischio, che la toglieranno, perché noi e i nostri figli siamo “sacrificabili”. Io non posso sapere cosa ti sia davvero passato per la testa, ma quando ho saputo che a novembre forse si sarebbe fermato tutto, anche a me è venuta la voglia di prendere il coltello, non contro mio figlio… ma la rabbia, quella c’era tutta.
E poi, cara mamma fragile, la rabbia passa e subentra la compassione. Quanto ti sei sentita sola per fare quel che hai fatto? E quella carogna di nebbia della depressione ti impediva di vedere quello che di tanto in tanto colgo io, quello che ci permette di andare avanti, di cogliere dalle frasi, dai gesti di questi figli così diversi, amore, dolcezza, comprensione. Come quando Giovanni la sera mi invita in camera sua ad ascoltare la musica, e si placa, mentre io, seduta sul divano, lo guardo. O come quando, dopo una provocazione durata almeno mezz’ora, mi dice: «Io scherzo, mamma, lo sai che scherzo sempre!».
Magari tuo figlio non parlava, ma quei gesti ci sono anche in chi non parla. Tu non potevi più coglierli, la depressione te lo impediva, nella mente solo quel nero e quella sensazione di enorme stanchezza e, forse, di non poter più essere per tuo figlio quel tramite unico per il mondo che eri stata fino ad allora. Il peso del mondo è sulle nostre spalle, mamma fragile, ma noi siamo solo esseri umani.
L’altro giorno ho rifiutato per la seconda volta il suggerimento di un neurologo a un ricovero di quindici giorni, per un aggravamento della mia patologia neurologica. Con chi lascerei mio figlio nelle lunghe ore della sera e della notte? Non certo con mio marito, che lavora tutto il giorno, e che si alza alle sei del mattino. E con chi allora?
Sono la seconda di cinque figli, e tutti i miei fratelli e sorelle lavorano, a chi lascerei prevalentemente Giovanni, quando la tata riposa o è il suo giorno libero?
Siamo esseri umani “travestiti da Atlante”, cui è negata a volte anche la speranza del riposo. Talora penso che basterebbe anche solo un telefono, una rete per noi, come dice il giornalista e scrittore Gianluca Nicoletti, anch’egli padre di un ragazzo con autismo. Qualcuno da chiamare per far passare quel momento, per avere un sorriso, una carezza che si meritano tutti, anche noi. Una telefonata dalle “mamme degli altri”, quelli “normali”, che non arriva mai, perché la nostra stella è invisibile, ma ben presente nella società.
Che dici mamma fragile, che a questo non avevi pensato? Sì, forse è così, forse a questo penso io, tu eri già oltre, forse ci pensavi prima di arrivarci, a quel confine oscuro. Oltre quel confine non esiste più nemmeno la voce per parlare, solo le mani che agiscono contro quel dolore insopportabile. Come nella novella della bambina che voleva dormire, e soffoca il neonato che le è stato affidato. Una storia terribile come la tua, mamma fragile, che forse voleva solo dormire.
Cosa dirti ancora, forse tu non leggerai queste mie parole, ma spero che le leggano gli altri. Che le leggano non perché scritte in bello stile, ma perché sono vere.
Hai fatto un gesto terribile, mamma fragile, ma non sei stata sola, insieme a te c’era una società matrigna che non ti (non ci) lascia dormire.