Malgrado mia figlia Silvia goda normalmente di buona salute – anche se “buona salute” per lei è una dizione tremendamente relativa – in passato abbiamo, lei e noi famiglia, trascorso lunghi periodi in ospedale. I ricordi in materia sono di segno opposto: alcuni terrificanti, altri singolarmente umani.
Questa volta siamo stati (siamo ancora, mentre scrivo) ospiti di un Reparto di Rianimazione di un DEA [Dipartimento di Emergenza e Accettazione, N.d.R.] di secondo livello, fortunatamente vicino a casa, un mese o poco più, causa una grave emergenza respiratoria.
Da un certo tempo Silvia dormiva più del solito, ma niente di particolarmente preoccupante. Nessun altro segno, se non alcuni dati contrastanti rivelati dal saturimetro, che giudicammo, probabilmente sbagliando, dovuti a una vasocostrizione periferica che rende assai difficile il posizionamento utile del sensore.
Fortunatamente un sabato pomeriggio – accade sempre di sabato pomeriggio! – iniziammo ad avere qualche dubbio, andammo al Pronto Soccorso e un’emogasanalisi estemporanea rivelò una percentuale pazzesca di CO2 (anidride carbonica) nel sangue di Silvia. Subito trasferita in Rianimazione (ove siamo tristemente noti), la ragazza è stata collegata al ventilatore polmonare e monitorata.
Chissà che tribolazioni, direte voi! Per noi famiglia certamente, per Silvia assolutamente no, perché da una quindicina di anni la figliola – guai se mi sente chiamarla così! – è “dotata” di tracheo e quindi si è trattato semplicemente di collegare la medesima al ventilatore polmonare. Nessun dolore, nessun disturbo, se non quello di stare in un comodissimo letto con mille diavolerie tecnologiche. E svariati compagni – ahimè, di sventura – nei letti confinanti, la privacy protetta da tende scorrevoli e vezzosi separé mobili.
Oggi la prassi clinica vuole che prima si valutino le capacità e le necessità respiratorie del paziente con un respiratore-computer “leggermente gigante”, dotato di uno schermo che produce affascinanti (o terrificanti?) tracciati colorati e che quindi si passi a trasferire dati e paziente a quello “domiciliare” (delle dimensioni di una ventiquattr’ore), nella speranza di trasferire, possibilmente presto, ambedue a casa.
Naturalmente questo percorso, essendo noi umani, è costellato di rischi, alcuni anche assai gravi, il più pericoloso dei quali è rappresentato dalla possibilità di contrarre patologie ospedaliere talvolta antibiotico-resistenti, come quelle che derivano da certi batteri tipici dei Reparti di Rianimazione.
A proposito di Rianimazione, si tratta certamente del regno della tecnologia e della sapienza medica e infermieristica e di un luogo ove si possono imparare moltissime cose utili alle persone con disabilità.
Le recenti innovazioni che vanno sotto la denominazione di “Rianimazione aperta”, permettono ai familiari di passare maggior tempo, rispetto alle due ore su ventiquattro di prima, con il proprio congiunto ricoverato. Le persone con disabilità e gli anziani hanno poi diritto, salve le esigenze di reparto, di avere sempre un familiare accanto.
Or non vorrei dare l’impressione che Silvia abbia passato un periodo di “vacanza ai Caraibi” in un resort di lusso! Ha subìto, ad esempio, un certo numero di trattamenti non proprio piacevoli, anche se la moderna anestesia fa miracoli. Ma è stata ed è trattata con grande umanità e, malgrado l’ambiente non sia dei più allegri, ha sopportato con filosofica rassegnazione la restrizione della sua libertà personale. La sua famiglia un po’ meno!