Pensare e non agire o agire senza pensare

di Simone Fanti*
Due “sport”, secondo Simone Fanti, nei quali i nostri connazionali sono «veri e propri campioni», come dimostrano troppi ascensori del nostro Paese, posti in edifici pubblici (o privati aperti al pubblico), che non sempre vengono costruiti tenendo conto di ciò che servirebbe in termini di accessibilità a tutte le persone con disabilità, obbligando poi a costosi rifacimenti

Uomo in carrozzina davanti a un ascensorePulsantiere troppo alte o troppo basse, porte troppo strette per introdurre una sedia a rotelle o che si chiudono velocemente e non “rispettano” i tempi di una persona con disabilità motoria oppure privi di quella vocina che annuncia l’apertura e la chiusura delle porte, tanto utile per chi ha difficoltà sensoriali. Insomma, gli ascensori, croce e delizia delle persone con disabilità. E passi per quelli vecchi per i quali non esisteva una normativa, ma per quelli nuovi, che beneficiano magari dei contributi per l’abbattimento barriere architettoniche, non ci può essere pietà.

Difficile, se non si vive su una sedia a rotelle, che possa succedere un’avventura come quella che è capitata a chi scrive. Invitato a un convegno, cerco un albergo accessibile. Telefono e una voce gentile mi assicura che la camera è attrezzata e c’è un ascensore nuovo che porta al primo piano. Perfetto, ma per scrupolo chiedo di misurare l’apertura delle porte, che in gergo si chiama “luce”. È stato recentemente installato, quindi dovrebbe essere a norma. E invece no. Apertura di 59 centimetri. Nuovo e stretto. Non è una novità. Eppure è ben noto che le norme ci sarebbero, sia che  l’ascensore si trovi in un edificio pubblico (Decreto del Presidente della Repubblica 503/96), sia che si trovi in un edicifio privato e aperto al pubblico (Decreto Ministeriale 236/89).
L’ascensore è uno di quegli oggetti di uso quotidiano a cui nessuno più presta attenzione. Distratti si preme il pulsante, si entra, altro clic e, con le porte che lente si chiudono, ci si lascia alle spalle casa o lavoro per immergersi nei propri pensieri per qualche istante o per scambiare due parole – non più di due, vista la velocità di alcuni modelli – con il vicino o il collega. Un vero e proprio “traghetto”, un ponte in verticale che trasporta da un luogo all’altro. Ma anche un oggetto che per alcuni è sinonimo di libertà.
Un tasto e si entra, o si abbandona, la propria dimensione familiare. Un altro per fare il proprio “ingresso in società” tra amici o colleghi. Un altro ancora per arrivare in un luogo di cura, di vacanza… clic, clic, clic in un teletrasporto continuo di vicende umane. A patto che funzioni.

Mi viene in mente un simpatico paragone che forse in pochi conoscono: percentualmente Milano batte New York per presenza di stazioni della metropolitana accessibili (New York 110 su 468, Milano circa un’ottantina su cento stazioni). E tuttavia, in quante di queste gli ascensori funzionano? O più semplicemente sono ben indicati? Fin troppo spesso la mancanza di cartelli è la barriera più grande: il passaggio c’è ma non lo si conosce. Una vera beffa.
Se l’ironia non fosse un atteggiamento defunto in un mondo dove le comunicazioni testuali (mail, sms, web, chat, what’up…) hanno spento in gola quel sapiente tono della voce che indicava l’amaro umorismo, mi divertirei a imitare un “borghesotto” di una grande città, che in uno smozzicato dialetto dice: «Ma di che si lamentano i disabili, già gli abbiamo dato l’ascensore e i montascale, pretendono anche che si faccia manutenzione? Ma lo sanno che c’è la crisi!».
Già, la crisi, parolina magica per nascondere la non volontà di fare qualcosa. Ecco quindi che i migranti diventano esseri che l’Italia non si può permettere di accogliere: c’è la crisi! I disabili persone su cui non si deve investire per integrarle nel mondo della scuola o del lavoro: c’è la crisi! Perché gettare soldi in queste missioni? E via via, ogni categoria riceverà la sua buona dose di un populistico menefreghismo ed egoismo: pensionati, donne, universitari senza prospettiva di un lavoro, disoccupati…

Ma bando all’ironia. Forse l’ascensore per uscire da questa crisi c’è e si chiama pensiero. Ovvero la capacità tipica dell’essere umano di fare un’azione dopo aver valutato pro e contro, abbandonando l’istintualità propria del mondo animale.
Noi italiani siamo veri e propri campioni in due “sport” che non danno medaglie. Anzi. Campionissimi nel pensare e non agire o nell’agire senza pensare, dovendo porre rimedio, con costosi rifacimenti, a quello che si è costruito. Ecco che i risultati poi si vedono. Le barriere architettoniche vengono abbattute in teoria con ascensori nuovi, ma con porte troppo anguste per farvi entrare una sedia a rotelle.

Testo già apparso in “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it» (con il titolo “L’ascensore dei desideri”). Viene qui ripreso, con alcuni riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.

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