In Mauritania, repubblica islamica dell’Africa nord-occidentale, pur dotata di notevoli risorse naturali, circa il 45% della popolazione vive con meno di due dollari statunitensi al giorno.
Anche in questo Stato, come in tanti altri, opera Terre des Hommes, organizzazione in prima linea da oltre cinquant’anni, per proteggere i minori di tutto il mondo da violenza, sfruttamento e abusi. E lo fa anche con un Centro Diurno rivolto ai bimbi con disabilità, a Dar Naim, sobborgo di Nouakchott, capitale dello Stato.
Proprio da quel Centro, a cura di Gian Andrea Rolla, delegato di Terre des Hommes in Mauritania, e grazie all’interessamento di Rossella Panuzzo dell’Ufficio Stampa di Terre des Hommes Italia, ci arriva una bella storia, cui ben volentieri diamo spazio, scritta da una delle suore vincenziane dell’Associazione Figlie della Carità, che opera nella repubblica africana da più di dieci anni e che è partner per questo progetto di Terre des Hommes Italia.
Noi suore in Mauritania siamo tollerate perché non siamo qui a portare la voce dei Vangeli – la Mauritania, infatti, è una repubblica islamica -, ma per aiutare chi ha bisogno e ciò è possibile perché anche nella religione sorella dell’Islam, la carità è un obbligo fondamentale.
Abbiamo cominciato a dare assistenza ai carcerati stranieri, cattolici e cristiani all’inizio, ma da tempo aiutiamo tutti quelli che ne hanno necessità. Li aiutiamo nei contatti con le loro famiglie e i loro avvocati e quando hanno problemi di salute e alimentari o sono preda dello sconforto che prende ogni uomo privato di libertà, anche se colpevole, soprattutto quando è lontano da casa.
La realtà del carcere è illuminante per capire la realtà della vita e abbiamo imparato ad essere più sensibili e più attente al dolore, alla povertà, alle privazioni e oggi lo siamo di più di quanto lo eravamo quando siamo partite, chi come me dall’Italia, chi come le mie consorelle dalla Spagna, dalla Francia, ma anche dal Madagascar e dall’Estremo Oriente.
Guardandoci attorno, abbiamo conosciuto la realtà delle donne abbandonate dai mariti o più semplicemente dai padri dei loro figli, la loro condizione di ultime tra gli ultimi in questo mondo, un po’ come succedeva da noi, e come succede ancora qui, nonostante la misericordia della quale ci diciamo tutti osservanti.
Abbiamo allora aiutato queste donne a ottenere dei piccoli terreni nella periferia di Nouakchott, dove abbiamo realizzato delle abitazioni e delle botteghe per commerciare; per avviare poi i loro bambini a scuola, abbiamo organizzato insieme a loro dei piccoli asili nido e scuole materne.
E poi abbiamo liberato dalle catene i loro bambini handicappati o, meglio detto per le nostre buone coscienze, “diversamente abili”, anche se forse dovremmo dire “diversamente disabili”, perché non vedo di quale abilità saremmo portatori noi cosiddetti “normodotati”, se non quella di fare del male a chi è più debole, come sono questi bambini diversi dai soliti bambini che ci piacciono tanto solo se belli e sani.
Infatti, quando dico «liberati dalle catene», parlo davvero di catene. Per i bambini delle famiglie più povere, infatti, sono le catene legate ai semafori della città dove chiedono l’elemosina, mentre per i bambini delle famiglie meno povere sono le catene legate alle colonne delle case o infisse nei muri dei giardini, quando sia la mamma che il papà se ne vanno in giro per i loro affari e lasciano i figli incatenati come dei cani che non abbaiano, ma gridano e piangono.
E non sentiamoci migliori noi italiani, ascoltiamo invece i nostri vecchi – se ancora ne abbiamo a casa – e facciamoci raccontare come si trattavano questi bambini nell’Italia arretrata e rurale dei loro tempi.
Oggi, grazie a Terre des Hommes Italia, Unicef e a tante persone generose, per la maggior parte mauritane, funziona per nostra iniziativa, nel quartiere popolare di Dar Naim, un Centro Diurno, ludico-educativo, per questi bambini, dove fisioterapisti, ortofonisti e psichiatri collaborano con le nostre operatrici e dove i loro miglioramenti di vita e di salute sono evidenti e tangibili.
Oggi non ha più catene Mohamed – lo chiameremo con questo bel nome, ma il suo nome vero è un altro -, il figlio “handicappato” di una domestica che prima di andare al lavoro lo incatenava al semaforo più vicino alla casa dei suoi padroni. Non ha più catene Mariam, altro bellissimo nome, anche se per la privacy non è quello vero, della bambina figlia dei padroni della mamma di Mohamed, i genitori sempre in giro, lui un politico e lei una commerciante di mahlafas*.
Mariam veniva anche lei incantenata alla piccola palma del loro bel giardino coperto di conchiglie bianchissime, perché in Mauritania l’erba verde è rara e le conchiglie dell’oceano fanno prato.
Erano vicini Mohamed e Mariam e forse nelle loro grida e nel loro pianto c’era una forma per parlarsi. Oggi, nel nostro Centro, si parlano senza urla e senza lacrime, giocano insieme e sono liberi, e noi siamo felici.
*Le mahlafas sono i veli colorati e ornati da disegni che fungono da tenuta tradizonale delle donne mauritane, soprattutto per le appartenenti alle etnie maure, arabo-berbere e harattin. Quest’ultima è la fascia di popolazione africana che era stata schiavizzata dalla penetrazione araba e musulmana in Africa, perdendo di conseguenza il nome, la religione e la lingua d’origine. Oggi affrancati, gli harattin mantengono il nome arabo dell’antico padrone e l’adesione all’Islam, nonché, come lingua madre, l’hassaniya, dialetto arabo dei clan mauri (arabo-berberi), abitanti soprattutto la Mauritania del Nord e dell’Est del Paese.
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