La realtà di un reparto di rianimazione, raccontata qualche settimana fa su queste pagine da Giorgio Genta, andava doverosamente segnalata. E tuttavia, nella maggior parte dei casi, la situazione, per i familiari che vogliano seguire da vicino i propri cari, è ancora assai diversa ed è purtroppo quella documentata da Marina Cometto, in questa sua lettera indirizzata al Ministro della Salute.
Ho ricevuto molte testimonianze riferite alla permanenza dei propri figli in rianimazione o terapia intensiva, e tutte erano colme di dolore, sia per il fatto di veder soffrire la propria creatura, ma anche per il fatto di doverla lasciare da sola, senza il conforto e la presenza della mamma e/o del papà.
In alcuni casi, infatti, anche nel momento estremo della vita di un essere umano, il non aver potuto accompagnare il proprio figlio con una carezza o con un bacio ha lasciato in tutti loro, al di là del dolore per la grave perdita, anche quello incancellabile per il senso di solitudine in cui i loro figli erano abbandonati.
Sì perché, Ministro Lorenzin, come lei certamente ben sa, nessun medico è mai riuscito a chiarire il dilemma, nessun medico può asserire con certezza quando e quanto una persona “sente”, quando si trova in rianimazione o in terapia intensiva.
Queste, ad esempio, sono alcune righe di uno scritto lasciato da una persona ricoverata in rianimazione: «È stata molto dura, specialmente quando mi sono risvegliata in rianimazione, intubata, impossibilitata a muovermi e a parlare, quasi incapace di respirare, ma perfettamente lucida… Sono rimasta intubata da sveglia una notte e un giorno, ma mi è sembrato un secolo… Mi sembra di dire una bestialità, ma questa esperienza mi ha insegnato molte cose; credevo di sapere tante cose e ho capito invece che ne dovevo imparare molte di più. Ho vissuto in prima persona, sia pure per poco, cosa significa essere un corpo in balìa degli altri, mendicare un gesto d’attenzione, aspettare una semplice carezza come un assetato nel deserto… Sì, perché la rianimazione è il “regno delle macchine”, io non ero più io, ero solo un corpo nudo e dolorante attaccato a dei monitor, piena di tubi, drenaggi, sonde. Solitamente (così dicono, ma ho qualche dubbio) in rianimazione non si è molto presenti, si trascorre quel periodo nella semincoscienza, quindi dovrebbe pesare di meno. Ma per me non è stato così, vedevo e sentivo tutto, e quando qualcuno mi trattava come un essere umano e mi toccava con delicatezza e rispetto mi sembrava subito di stare meno male…».
I nostri figli, pur nella gravità delle loro condizioni sia fisiche che psichiche, sentono anche quando sono sordi, vedono anche quando sono ciechi, capiscono anche quando sono molto colpiti nella sfera cognitiva e tutto questo perché noi genitori, con le nostre carezze, con i nostri baci, con i nostri sorrisi, con la nostra sola presenza, trasmettiamo loro tutte le possibili sensazioni perché si sentano prima di tutto amati.
Non si capisce, allora, perché non possiamo stare loro vicino quando devono affrontare la terapia intensiva o la rianimazione, che spesso li accompagna inesorabilmente verso l’“ultimo viaggio”.
Lei non può neppure immaginare, Ministro, il vuoto – oltre al dolore struggente di perdere il proprio figlio -, il vuoto che si prova nel non potergli essere vicino nel momento estremo del distacco da questo mondo, il vuoto che rimane nei genitori di non poter ricordare quel momento. E il momento dell’accompagnare alla fine della vita, spesso è l’unico conforto che rimane ai genitori, consapevoli in molti casi che esso sarebbe arrivato.
Posso essere d’accordo con il personale medico e paramedico che talvolta – date le cruenti manovre e cure che si possono e si devono attivare in rianimazione – non sia opportuno che chi è legato da stretta parentela assista, ma si potrebbe collaborare e pensare tutti insieme a orari e criteri meno rigidi, per garantire la libertà d’azione al personale addetto e il conforto della reciproca presenza per i pazienti e i genitori.
In alcune rianimazioni è permesso visitare l’ammalato per mezz’ora al giorno, in altre per un’ora o due dilazionate nella giornata, in alcune non è prevista alcuna presenza…
Io penso che – così com’è avvenuto per il riconoscimento del beneficio della presenza dei genitori nei reparti di pediatria o nell’assistenza di persone adulte con gravissima disabilità, ciò che tra l’altro ha sollevato gli operatori sanitari da un carico di lavoro non indifferente (oltre che con un indubbio beneficio economico per le casse delle varie aziende ospedaliere e della collettività) -, si potrebbe prevedere di estendere la presenza dei genitori, almeno – e questo per tutti i bambini degenti, siano essi disabili o no, e per tutti gli adulti con gravissima disabilità in rianimazione o terapia intensiva – per otto o dieci ore nell’arco della giornata e per tutta la notte, momento della giornata che certamente risulta più angosciante.
Questo permetterebbe agli operatori di poter svolgere ugualmente il loro lavoro, e ai degenti e ai genitori di continuare a mantenere un rapporto fatto di presenza, di carezze, di gesti abituali, che forse porterebbero anche a una guarigione più veloce… si sa, l’amore fa miracoli.
Inoltre, si eviterebbero in molti casi le piaghe da decubito, perché l’assistenza sarebbe più assidua, e sarebbe motivo di conforto sia per il malato che per i genitori.
Anche i pazienti adulti disabili gravissimi – spesso adulti solo per l’anagrafe, ma non per le necessità – dovrebbero quindi poter contare sulla presenza e sull’assistenza da parte di un genitore: a volte, infatti, solo con un sorriso e una carezza i nostri figli si calmano e affrontano più sereni la sofferenza.
E, mi si permetta di dirlo, c’é molta differenza tra la carezza di un genitore e quella di un operatore sanitario.
Chiedo quindi a lei, Signor Ministro, così come all’Ordine dei Medici, alle Direzioni Sanitarie delle Aziende Ospedaliere e agli Operatori dei vari livelli, di lavorare anche in questo senso per migliorare la Sanità italiana, ovvero per offrire sì ai cittadini servizi sempre migliori e efficienti, ma anche un Servizio Sanitario Nazionale sempre più umano.