Il primo articolo che scrissi risale al dicembre 1996. Si intitolava Ma avete mai chiesto a un disabile? [pubblicato da «DM», giornale nazionale della UILDM – Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare, N.d.R.] ed era una riflessione sul modo di rappresentare la disabilità in TV.
L’avevo quasi dimenticato, finché, nella scorsa settimana, non ho assistito all’intervento di Alda D’Eusanio a La vita in diretta, programma pomeridiano di Raiuno.
Non mi dilungo sull’episodio in questione, se n’è già discusso a lungo anche su queste pagine [si vedano i testi qui a fianco elencati, N.d.R.] e (quasi) tutti hanno giudicato per lo meno inopportune le parole della conduttrice-giornalista che ritiene inutile una vita vissuta in sedia a rotelle con gravi limitazioni nell’autonomia.
Piuttosto mi viene da pensare a cosa sia cambiato dal 1996 ad oggi nel rapporto tra disabilità e vetrine mediatiche. Insomma, se oggi dovessi scrivere quell’articolo, direi cose diverse rispetto a diciassette anni fa?
Possedendo un’ipotetica macchina del tempo che ci facesse rivedere un qualunque programma dedicato a tematiche sociali degli Anni Novanta, difficilmente vedremmo in video cittadini con disabilità che si raccontano in prima persona. Piuttosto ci sarebbero sociologi, psicologi ed esperti delle più varie scienze a spiegare cosa significa avere un handicap.
Ricordo che a quel tempo notavo spesso che ad eventuali disabili presenti in studio erano riservati i primi piani, mentre erano un’eccezione le inquadrature che includevano la carrozzina. Proprio per questo intitolai quell’articolo Ma avete mai chiesto a un disabile?, perché non solo era raro ascoltare dalla viva voce degli handicappati (vecchio gergo sostituito dal politically correct) le mille implicazioni quotidiane di un’esistenza “disabile”, ma si tentava di celare l’handicap anche visivamente.
Lo strisciante pietismo, implicito in ogni discorso, sottolineava la necessità di considerare “normali” le persone disabili e proprio con questa, a mio parere, inutile precisazione, si evidenziava una differenza che è solo negli occhi di chi guarda e si limita a recepire ciò che trasmette l’apparato visivo, senza andare oltre. Appunto, non si andava oltre il luogo comune che voleva il disabile “povero sfigato”.
E oggi? Alcuni passi avanti sono stati compiuti. Una ventina d’anni fa sarebbe stato impensabile, ad esempio, sentir riferire con discreta dovizia di particolari le imprese degli atleti paralimpici, mentre le ultime edizioni della manifestazione sportiva sono riuscite a ritagliarsi uno spazio piccolo, ma dignitoso nei palinsesti.
Certo, lo sport praticato dai disabili rimane purtroppo “figlio di un dio minore”, ma molti iniziano a comprendere che in quanto ad agonismo e prestazioni da record, esso non ha nulla da invidiare alle discipline esercitate dai “normodotati”. Nel bene e nel male, Pistorius docet.
Ma per analizzare i cambiamenti nella rappresentazione della disabilità bisogna spostarsi su due piani diversi, quello quantitativo e quello qualitativo. Se dal punto di vista del tempo dedicato alla tematica, infatti, sono stati fatti dei progressi, la qualità del messaggio è ancora deficitaria. L’inquadratura ingloba la sedia a rotelle e altri eventuali ausili, eppure l’handicap è ancora valutato come l’eccezione che riguarda una minoranza della popolazione; nessuno, insomma, pare riflettere sul fatto che ogni persona, anche la più atletica, può ritrovarsi disabile per un breve periodo a causa di una banale caduta e che in ogni caso, con il progressivo innalzamento dell’aspettativa di vita, tutti, prima o poi, dovranno fare i conti con qualche problema di movimento.
L’approccio televisivo che prevale è quello dell’esperienza di vita, per lo più un resoconto maldestro della “disgrazia” capitata alla famiglia. In questo, poco o nulla è cambiato, nessuna domanda ai disabili su cosa hanno appreso attraverso la loro esperienza con l’handicap.
Ci sono poi i servizi medici e i fatti di cronaca nei quali la persona con deficit, magari vessata o vittima di violenza, diventa mero oggetto di una notizia. Qui il confine tra una rappresentazione veritiera e il sensazionalismo si restringe ancora di più.
Infine, ci sono i casi eccezionali, come il già citato Oscar Pistorius in ambito sportivo (peccato si sia tanto parlato di lui e così poco di altri atleti disabili con un ricco carnet di vittorie e un’esistenza con la testa sulle spalle), Alex Zanardi, un concentrato di simpatia e forza di volontà, oppure lo scienziato di fama mondiale Stephen Hawking, reso immobile dall’atrofia muscolare, che ha occupato la cattedra di matematica che fu di Newton.
Tutti disabili che hanno raggiunto vette impensabili perfino per la maggior parte delle persone di sana e robusta costituzione fisica. Casi prodigiosi che danno speranza, ma possono instillare nel telespettatore la convinzione che il disabile, per essere considerato “normale”, debba in qualche modo mostrare doti eccezionali.
Non me ne vogliano i diretti interessati, rispetto, ammiro (e un po’ invidio) i loro traguardi, ma ho sempre pensato che questi “super-disabili” siano in un certo senso “doppiamente diversi”, prima per i loro handicap, in seconda battuta per le loro qualità fuori dall’ordinario.
In un’intervista del 2011, Salvatore De Mola, lo sceneggiatore dei Cesaroni e di Montalbano, diceva che un protagonista con handicap in una fiction RAI o Mediaset è impensabile, perché «le reti televisive puntano a un pubblico che cerca l’evasione e non vuole rischiare di farsi andare di traverso il boccone della cena con storie socialmente difficili». Più di una volta, raccontava di essersi visto rifiutare sceneggiature nelle quali erano inseriti elementi sociali. Il disabile, insomma, viene accettato solo se è un personaggio secondario.
Intanto, in Danimarca, va regolarmente in onda TV Glad, ovvero la “’TV Felice’”, una televisione fatta, esclusi i tecnici, da persone con disabilità mentale. Se all’estero i disabili fanno televisione, a casa nostra non molto tempo fa un giornalista con handicap presente a una conferenza stampa dell’allora ministro Elsa Fornero, pose alcune domande e i telegiornali lo individuarono come “il malato”, senza nemmeno essere sfiorati dal dubbio che quell’uomo in carrozzina, Andrea Venuto, fosse un loro collega [se ne legga anche nel nostro giornale, N.d.R.].
No, anche se ci inquadrano interamente e dedicano qualche minuto in più, ancora si parla di noi dentro ben determinati schemi. Un disabile non viene invitato a un dibattito che non parli di disabilità, non partecipa a quiz televisivi, non legge un notiziario.
Come nel 1996, anche oggi il grande latitante nei mass-media è il “disabile normale”. Un “personaggio strano”, che ai comuni intoppi della quotidianità deve aggiungere il disagio di un corpo non al top ed è obbligato a superare ostacoli architettonici frutto di barriere mentali. Non sempre può frequentare con serenità la scuola, ancor più raramente riesce a lavorare, a volte non riesce neanche ad uscire di casa perché una scalinata glielo impedisce.
Il “disabile normale” deve sostenere lo sguardo delle persone per strada che lo osservano con compatimento o curiosità morbosa e, quando ha a che fare con le Istituzioni, deve continuamente certificare, carte alla mano, la propria disabilità. Ecco, io questo “disabile normale” non lo vedevo nel 1996 e continuo a non vederlo nemmeno oggi.